​Cecilia Lavatore

Ma è ancora difficile essere madre e lavoratrice

di ​Cecilia Lavatore
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Mercoledì 8 Marzo 2023, 00:32

Questo non è un Paese per mamme. Conciliare maternità e lavoro in Italia è ancora difficile e in alcuni casi irrealizzabile. Il sistema occupazionale e i sussidi dello Stato alle famiglie sono manchevoli, eppure risulta più conveniente credere che siano le donne a scegliere di sacrificare il desiderio di avere dei figli per tenersi stretta la loro realizzazione professionale o anche solo l’indipendenza economica. Nonostante le centinaia di pubblicità progresso che invitano le donne in età fertile a mettere al mondo dei bambini e i retaggi culturali che vorrebbero la figura femminile felice soprattutto nelle sue vesti di madre, niente sembra abbastanza convincente da invertire di segno il decennale trend negativo del nostro tasso demografico.
Le italiane posticipano la prima gravidanza, che in molti casi diventa anche l’unica, oppure scelgono di non avere nessun figlio. L’età media al parto delle donne raggiunge i 32,7 anni e 1,25 è il numero medio di figli per donna.

Lungi dall’essere una scelta trasgressiva, originale o controcorrente, quella di non diventare madri o di diventarlo il più tardi possibile è una scelta perfettamente in linea con l’orientamento generale. Procreare è piuttosto oggi in Italia un atto che richiede coraggio. Attribuire all’emancipazione delle donne la colpa per la mancata crescita del Paese non solo rischia di alimentare il tradizionale senso di colpa insito nel gentil sesso fin dalla genesi biblica ma è anche una lettura fuorviante della questione, dovremmo piuttosto cercare di comprendere quanto incidano le falle della struttura sociale sulle pianificazioni familiari.

Secondo i dati Istat solo il 42% delle mamme under 54 anni lavora. Nel 2021 le donne tra i 25 e i 49 anni risultano occupate nel 73,9% dei casi se non hanno figli, ma lo sono nel 53,9% se hanno un figlio, mentre con 2 o più figli scende al 44,2%. Secondo l’Ispettorato del lavoro nel 2020 si sono registrate 42.000 dimissioni consensuali di genitori con figli da 0 a 3 anni. Di queste ben il 77% sono madri. La partecipazione delle donne al mondo del lavoro è vincolata ai carichi familiari e il lavoro di cura di minori, anziani e disabili continua a relegare le donne in posizioni di subalternità rispetto agli uomini. La fuoriuscita seppure temporanea dal mercato del lavoro grava sulle possibilità di carriera, sugli stipendi, sulla formazione permanente.

Secondo l’Inps nei ventiquattro mesi dopo il congedo di maternità la donna guadagna in media tra il 10 e il 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse avuto il figlio. Le lavoratrici madri sono le ultime ad entrare e le prime ad uscire, specialmente per quanto riguarda le posizioni manageriali: il 57% dei dirigenti donne non hanno figli, contro il 25% dei dirigenti maschi.

Sono notizie di poche settimane fa quelle dell’operaia Katia Pellegrino declassata e poi licenziata da una fabbrica torinese al ritorno dal congedo parentale e quella della calciatrice neomamma Alice Pignagnoli privata dello stipendio dalla sua squadra. E sono molte le domande scomode che vengono rivolte ogni giorno alle donne durante i colloqui di assunzione: «Sei sposata?», «Hai figli?», «Vorresti averne?».

L’articolo 37 della nostra Costituzione recita «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».
Tuttavia, latitano i posti negli asili nido, i congedi garantiti e duraturi anche per i padri, gli aiuti economici alle coppie con figli, gli incentivi alle aziende per assumere le candidate più giovani, e latitano molto più che la forza di volontà della popolazione femminile.

In una Repubblica fondata sul Lavoro, perderlo significa perdere l’autonomia e quindi la possibilità di avere un rapporto equo con il proprio compagno o con la propria famiglia d’origine. Per molte donne dipendere economicamente dal partner o dal padre può voler dire dover sottostare alle loro regole, ai tradimenti o addirittura alle violenze. La Giornata Internazionale dei diritti della donna è una buona occasione per festeggiare le conquiste raggiunte ma anche per riflettere su quanto ancora resta da fare per rimettere in pari secoli di diseguaglianze. Nei tempi difficili che viviamo pesano su di noi vecchie e nuove pressioni sociali, si pretende dalla donna contemporanea la capacità di allineare una moltitudine di incarichi e responsabilità. Ma la discrepanza tra il Sé Ideale della mamma, figlia, moglie e lavoratrice impeccabile e il Sé Reale così spesso deludente, è sempre più ampia e frustrante.

Il primo Women’s Day nasceva all’inizio del ‘900 negli Stati Uniti in seno ai movimenti sovranazionali dei lavoratori e questo non a caso: i traguardi del nostro genere sono da sempre intimamente legati ai rapporti di potere definiti e rinegoziati grazie alla consapevolezza della nostra forza lavoro. Per proseguire quanto iniziato dalle femministe del passato è dal lavoro che bisogna ripartire, prima ancora che da semplicistiche analisi psicosociali o da discorsi esclusivamente ispirati alla libertà sessuale.

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