Paolo Pombeni
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La celebrazione/ Il significato che il 25 aprile deve recuperare

di Paolo Pombeni
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Lunedì 25 Aprile 2022, 00:02

Liberiamo il 25 aprile. Sarebbe ora. Quella che doveva essere una ricorrenza “nazionale”, per celebrare il riscatto dell’Italia dalla parentesi dittatoriale che l’aveva fatta precipitare nella guerra mondiale combattuta dalla parte sbagliata,  è stata costantemente sottoposta a distorsioni che non si rassegnavano a riconoscere il valore storico dell’evento.
In parte poteva essere relativamente comprensibile quando ancora erano in vita e attivi quelli che per l’appunto si erano trovati, consapevolmente o per fatalità varie, dalla parte sbagliata della storia. Sempre in parte per il permanere nella memoria dei tanti che “avevano fatto l’impresa” di motivazioni diverse nelle scelte di allora. Lo diventava sempre meno quando il susseguirsi delle generazioni avrebbe dovuto “storicizzare” tutto, rendendo evidente un significato complessivo che non solo era stato allora largamente condiviso e unificante, ma che affermava il suo successo col procedere della storia: riportare l’Italia nell’ambito del costituzionalismo democratico occidentale con quei fondamenti che lo avevano forgiato dalle grandi rivoluzioni fra fine Settecento e inizio Ottocento alle grandi evoluzioni politiche del Novecento.


Non si può negare che per una fase, che come vedremo rifiuta di tramontare, quel significato fece fatica ad affermarsi in pieno. Nonostante esso sia chiaramente visibile nella dinamica che ha portato alla stesura della nostra Carta costituzionale, scritta con la confluenza su quella prospettiva, ovviamente interpretata alla luce del travaglio del pensiero politico della prima metà del Novecento, divenne problematico per la spaccatura di quella che era stata presentata come la grande alleanza antifascista fra l’Occidente, che andava riconoscendosi nella guida americana, e un incerto Oriente, dove quella che era sembrata una parvenza di costituzionalizzazione del sistema sovietico (la costituzione del 1936) si era dissolta con la creazione dell’impero autocratico sovietico e le sue ambizioni internazionali.
La guerra fredda fece venire meno il consenso generalizzato sul binomio costituzionalismo (liberale)-democrazia e di conseguenza portò a dividersi fra chi voleva tenere salda quella connessione e chi voleva sostenere che essa non fosse necessaria per avere una democrazia. Di qui la spaccatura fra chi rinviava al quadro che faceva riferimento principale al modello politico euro-americano e chi voleva prescinderne, vuoi magnificando la versione autoritario-asiatica dell’Urss, vuoi rifugiandosi nell’utopia di una democrazia totalmente “altra” nel momento in cui il modello sovietico diveniva palesemente impresentabile come democrazia.


Questa spaccatura si è riflessa a lungo sull’interpretazione da dare del fenomeno resistenziale, già di suo complesso perché univa la resistenza armata spontanea e guidata dai partiti antifascisti, quella degli internati militari e non solo che non accettavano di unirsi al nazifascismo, quella di gran parte della popolazione che senza avere la possibilità di azioni attive aveva però sempre più tolto consenso e legittimazione al sistema politico nazifascista facendogli franare il terreno sotto i piedi. Da qui sono nate le contrapposizioni fra una lettura “costituzionale” del complesso resistenziale ed una che invece voleva intenderla come “rivoluzionaria”, magari dando al termine valenze diverse (generica rottura con un sistema “passato” o vera rivoluzione per un regime politico diverso da quello occidentale).
La cultura politica italiana non è stata capace di venire a capo di queste tensioni riconducendole nell’ambito di una lettura storico-costituzionale unificante. E’ stato più volte tentato, anche con esempi di notevole spessore, ma al dunque non si è riusciti sino ad oggi a delegittimare e a marginalizzare i cascami delle politiche di parte che si sono impadronite, peraltro senza averne né competenza né titolo, della “celebrazione” del 25 aprile. Non si è riusciti a farne la celebrazione della liberazione del nostro Paese dalla trappola in cui era caduto, quella della negazione della nostra partecipazione al percorso del costituzionalismo democratico. La si è trasformata in troppi casi nell’occasione per mettere in piazza improbabili ricostruzioni di fughe in varie utopie.
Il pericolo di queste deviazioni non può essere oggi sottovalutato nel momento in cui sta tornando in campo il mito della “democrazia illiberale”, considerato termine più accettabile di quello della democrazia autoritaria, che connota sistemi dove si mantiene il rito elettorale del far pronunciare il popolo, ma senza quel contesto di libertà di pensiero, di bilanciamento dei poteri, di distribuzione del potere di governo fra territori, agenzie e corpi intermedi che renderebbe la pronuncia del popolo non il frutto di manipolazioni ma l’esito di percorsi di partecipazione alla decisione politica.


La delicatezza del passaggio storico che stiamo vivendo, delicatezza messa emblematicamente in luce dall’avventurismo bellico di Putin e soci, dovrebbe portare la cultura italiana a prendere di petto l’occasione di ridare al 25 aprile il suo significato profondo, davvero mandando al diavolo tutti coloro che vorrebbero immiserirlo nella riproposizione, anche abbastanza stanca, di tutte le leggende metropolitane sulla Resistenza e su quello che essi credono sia il suo lascito.

I partiti politici potrebbero contribuire astenendosi, alcuni dallo strumentalizzare le pochezze di quelle mitologie per sfuggire al confronto con il tema di fondo della nostra adesione al costituzionalismo occidentale, altri dal coprire le deviazioni più palesi colla solita argomentazione dei pochi che sbagliano per evitare di fare i conti con gli album di famiglia da cui quelle deviazioni hanno tratto linfa.

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