Vittorio E. Parsi
Vittorio E. Parsi

Il ruolo degli Usa/Il filo sottile che sostiene la pace a Taiwan

di Vittorio E. Parsi
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Sabato 6 Agosto 2022, 00:09

La politica americana nei confronti della Cina si trova in questo momento nella necessità di articolare due esigenze non necessariamente contrastanti ma neppure naturalmente armoniche. Mostrare fermezza verso Pechino, affinché non commetta fatali errori di valutazione circa la reazione americana all’uso della forza per «ricongiungere Taiwan alla Cina continentale», e contemporaneamente evitare l’escalation con la Cina mentre Washington è impegnata nel sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa.


Negli Usa è convinzione bipartisan che se si fossero inviati i corretti segnali di risolutezza a Putin, forse l’invasione dell’Ucraina si sarebbe potuta evitare o, perlomeno, posticipare. Se si considera che la Russia non ha mai smesso di riconoscere formalmente la sovranità ucraina (nonostante la narrazione del Cremlino di una identità ucraina debole se non addirittura artificiale) si comprende come nei confronti della questione di Taiwan i margini di manovra siano – da sempre – estremamente ridotti. 


La Cina, infatti, considera l’isola una “provincia ribelle” e non ha mai mancato di mostrare i muscoli ogni qual volta è parso che la piccola ma risoluta democrazia taiwanese compisse passi volti a rafforzare la sua “sovranità de facto”.
Se sono pochissimi i Paesi che ne riconoscono formalmente la sovranità, sono viceversa moltissimi quelli che hanno intense relazioni economiche (e di grande qualità) con Taiwan, a cominciare, paradossalmente, dalla Cina stessa, che è il suo primo partner commerciale.


L’integrazione profonda nel tessuto del sistema economico globale è la via scelta da Taipei per affermare la sua esistenza. Oggi Taiwan è il primo produttore al mondo di microprocessori di ultima generazione, una componente fondamentale per una miriade di prodotti industriali, come abbiamo imparato anche grazie alle conseguenze della pandemia. 


Negli anni Taiwan ha inoltre progressivamente ma irrevocabilmente cambiato il proprio sistema istituzionale, passando da un autoritarismo paternalistico a una vibrante democrazia. Anche questa trasformazione ha costituito una modalità attraverso la quale rompere l’isolamento diplomatico a cui l’isola è stata costretta dal 1971, anno della sua sostituzione da parte della Cina popolare come Stato-membro dell’Onu (e membro permanente del Consiglio di Sicurezza).


Questa è la terza “crisi dello Stretto”, la più grave da quella del 1996, che seguì l’annuncio di Taipei di voler procedere all’elezione diretta del capo dello Stato, abbandonando le procedure interne al vecchio Kuomintang, non così dissimili da quelle del Partito comunista. 
Negli ultimi tre decenni Pechino ha guardato a Taipei in maniera “strabica”: come un’opportunità di ulteriore apertura verso il commercio e la finanza internazionale (sulla falsariga di quanto ha rappresentato a lungo Hong Kong dopo la riunificazione del 1997), ma con sempre maggiore insofferenza rispetto al suo regime democratico e alle sue aspirazioni verso una piena indipendenza. 


C’è un parallelo in questo nell’atteggiamento verso Hong-Kong, con la crescente repressione nei confronti degli esponenti democratici dell’ex colonia britannica negli anni precedenti la pandemia, motivati dai timori di un possibile “contagio” (di natura politica questa volta) nei confronti della Cina continentale.


Il regime comunista non è certo in bilico.

Ma le preoccupazioni relative a un calo dei consensi interni causato sia delle draconiane ma sempre meno efficaci misure di contenimento delle successive ondate di Covid sia dai timori dell’esplodere di una gigantesca bolla immobiliare (legata anche al fenomeno delle cosiddette città fantasma, di cui si parla da oltre un decennio ma che non è stato mai contrastato) spingono Xi e il suo entourage a essere più nervosi del solito e a premere sul pedale del nazionalismo con sempre maggior vigore. 


Al momento appare improbabile che ciò possa spingere Pechino alla ricerca di un’escalation e a Washington restano convinti che mostrare fermezza sia il modo migliore per dissuadere Xi Jinping dal commettere tragici errori di valutazione. Un atteggiamento condiscendente da parte americana porterebbe d’altronde i Paesi dell’Asia orientale a dubitare della volontà americana di continuare a costituire il garante della sicurezza regionale anche di fronte a una Cina in ascesa, rendendo molto più costosa e forse insostenibile l’attuale postura degli Usa nel Pacifico, dando concretezza a quel rischio di over stretching evocato in apertura. 
Si tratta di una strategia tanto rischiosa quanto, agli occhi di Washington, altrettanto obbligata.
 

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