Francesco Grillo
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Veti incrociati/ L’unanimità che (non) serve in Europa

di Francesco Grillo
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Martedì 23 Maggio 2023, 01:09 - Ultimo aggiornamento: 23:14

L’abbattimento del totem dell’unanimità è considerato, da tempo la prossima tappa nel processo di integrazione dell’Unione Europea. Sono, tuttavia, gli ultimi tre anni di crisi - sempre più veloci ed intense - ad averne dimostrato definitivamente l’urgenza. Oggi a chiedere un’Europa capace di decidere senza veti, non sono solo i “federalisti”, ma anche conservatori e moderati, che capiscono che una maggiore velocità è condizione di sopravvivenza. 


Tuttavia, per comprendere quali siano sia le ragioni (forti) che i rischi (da prevenire) di un’estensione del meccanismo della maggioranza qualificata, può essere utile far riferimento a due esempi recenti che hanno, entrambi, visto l’Ungheria nei panni di membro più indisciplinato del club. Capire la logica che ispira Viktor Orbán può dare un contributo decisivo a trasformare un’antica richiesta in una proposta realistica.
In un anno di inaspettata unità dell’Europa rispetto all’invasione dell’Ucraina, è stata appunto Budapest a rappresentare l’ostacolo più arduo per varare dieci pacchetti di sanzioni contro la Russia (così come è stata sempre l’Ungheria, insieme alla Turchia, a costituire il principale scoglio nelle decisioni militari e strategiche della Nato). Nel maggio del 2022, in particolare, l’opposizione di Orbán ad un divieto di importazioni di petrolio, portò ad un compromesso, annacquato da eccezioni per il greggio che arriva in Ungheria attraverso l’oleodotto che collega la Siberia all’Europa centrale. E, tuttavia, quella stessa decisione prevedeva ulteriori esenzioni per la Slovacchia, per la Repubblica Ceca (che dell’oleodotto è il terminale), per la stessa Germania e Polonia. Mentre l’idea originale di non consentire più alle navi europee di trasportare petrolio russo in Paesi terzi veniva abbandonato per non mettersi contro la Grecia e Cipro. 


I veti diventano insomma un’opportunità di ricatto, laddove quasi sempre il recalcitrante viene premiato per la sua resistenza. Ma – molto più grave – il comodo paravento di cui approfittano altri senza esporsi.
In questo caso il veto ha enormi costi. Di velocità, ma anche di ambiguità contagiose che si moltiplicano al riparo della retorica del “tutti d’accordo”. Non è però senza rischi l’opzione di forzare lo stallo dell’unanimità. 
In un altro momento di grave crisi, il Consiglio Europeo decise di applicare la possibilità di decidere a maggioranza qualificata per una tipologia di politiche – quelle migratorie – che, a differenza di quelle relative alla politica estera, non richiedono il consenso di tutti. 


Nel 2015 fu deciso di procedere alla riallocazione di 120 mila rifugiati sbarcati in Italia e in Grecia, con una decisione adottata a maggioranza qualificata da parte del Consiglio dell’Unione Europea, con il voto contrario Ungheria (e, però, di nuovo accompagnata da Slovacchia e Repubblica Ceca, oltre che della Romania e l’astensione della Finlandia).

Andare avanti senza veto consentì di procedere più velocemente e, però, di nuovo il peso della decisione fu compromesso dalle battaglie legali tra l’Unione e due Stati membri, che sostenevano di non dover sottomettersi alle scelte comunitarie.  Un meccanismo di decisione, dunque, bloccato dai veti non è più sostenibile rispetto a crisi sempre più veloci (e lo stesso discorso vale per il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o per le Conferenze sul cambiamento climatico). Tuttavia, si deve pur essere consapevoli che meccanismi più efficienti possono rompere istituzioni prigioniere del mito di indissolubilità.


È giusto estendere i meccanismi di maggioranza qualificata (che, peraltro, prevedono livelli di consenso minimo sia per numero di Stati che di abitanti) a più casi (ad esempio, quelli di politica di sicurezza, ma anche, non meno importante, di armonizzazione delle imposte sulle imprese in un’area che è di libero scambio). 
E, tuttavia, tale possibilità che può essere introdotta anche senza una modifica dei trattati (con le cosiddette “clausole passarella”) deve prevedere meccanismi di flessibilità senza i quali il giocattolo europeo si romperebbe. È giusto, dunque, ad esempio, decidere che un sottogruppo dell’Unione metta insieme – come è già successo per le politiche monetarie - i nuovi investimenti in tecnologie per la sicurezza digitale (cyber security). Ma è fondamentale che chi non è d’accordo abbia la possibilità di tirarsi fuori. Da quella specifica alleanza che non si condivide: al momento della sua approvazione o successivamente se cambiassero le condizioni. O persino dall’Unione e potrebbe essere appunto il caso di un’Ungheria quasi mai d’accordo. Ed in qualsiasi caso attraverso meccanismi di separazione che siano prevedibili. 


Non c’è dubbio che l’unanimità vada superata. E, tuttavia, a oggi, i Paesi che lo chiedono esplicitamente sono solo nove: i fondatori più la Spagna e la Slovenia che rappresentano la maggioranza del Pil e dei cittadini europei, ma solo un terzo degli Stati.  Abbiamo bisogno di un’idea per superare l’impasse e la chiave è nella flessibilità. Proprio come i matrimoni prima che fosse introdotta la possibilità del divorzio, l’Unione soffre oggi di un eccesso di retorica che costa molto in termini sia di tempo, che di efficacia delle scelte. Un’istituzione capace di sopravvivere a tempi molto instabili ha il dovere di cercare una maggiore efficienza. Per farlo è indispensabile un meccanismo trasparente per gestire il conflitto che è parte ineludibile delle relazioni tra comunità diverse.


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