Mario Ajello
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Da Calabresi a D’Antona, la politica dell’odio che scatena il terrorismo

Marco Biagi vittima di un'escalation di minacce. I casi del passato non hanno insegnato niente

Da Calabresi a D’Antona, la politica dell’odio che scatena il terrorismo
di Mario Ajello
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Domenica 16 Ottobre 2022, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 12:18

Tornano i professionisti dell’odio, e l’Italia di colpo fa un salto - per ora solo nei simboli come la stella a cinque punte delle Br e nelle immagini come quella di La Russa appeso a testa in giù ma ci vuole poco a sconfinare nella violenza praticata - all’indietro ai suoi anni più tremendi. La lapidazione verbale dell’avversario, lo sbattere il mostro alla mercé del pubblico ludibrio, la delegittimazione odiosa di chi sta al governo o sta per andarci rientrano in una deriva che - diciamolo senza timore di esagerazione - può produrre terrorismo. La nostra storia ci insegna, con il caso Calabresi, che l’escalation di campagne ideologiche (come dimenticare il manifesto di centinaia di intellettuali di sinistra che aveva già decretato il commissario colpevole del suicidio di Pinelli?) capaci di rendere una persona il bersaglio di ogni delirio ideologico può finire per assumere la dimensione criminale. Era il ‘71, allora, e sembra scritto a quei tempi, in un revival del passato che non va fatto rientrare nella categoria della storia che si ripete come farsa ma in quella della tragedia italiana che è sempre in agguato, il volantino che gli autori dello striscione appeso al ponte del Colosseo hanno vergato minacciando: «Saremo ben lieti di mostrare a questo Parlamento il significato di Antifascismo Militante». Non si chiamava appunto antifascismo militante l’armarsi e il partire per spedizioni punitive contro i nemici che si praticava nel post-sessantotto? Si chiamava proprio così. E anche allora, delirio chiama delirio, c’era l’ossessione che chi stava al governo - e al governo non c’era la sinistra - in realtà era un nemico della democrazia, un usurpatore da togliere di mezzo, un dittatore in erba o già in servizio. 

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Guai ad augurarsi il ripetersi del peggio del peggio. Ma come dimenticare Marco Biagi che fu sottoposto ad ogni tipo di minaccia, pensava di essere pedinato dai killer brigatisti e lo era (aveva chiesto infatti la scorta però invano) e fu ucciso in seguito ad avvertimenti telefonici e pubblici attacchi («servo dei padroni», «la sua riforma uccide i lavoratori con il precariato», «liberista selvaggio» e altre falsità da volantini, da manifestazioni e da convegni) finché non venne ucciso sotto casa a Bologna il 19 marzo 2002? Lui era consulente per la riforma del welfare del ministro del Lavoro, Roberto Maroni, e lo stesso ruolo aveva avuto - per il governo di centrosinistra - Massimo D’Antona.

A sua volta additato a nemico del popolo, e poi ucciso dai brigatisti Galesi e Lioce in via Salaria mentre andava allo studio il 20 maggio del ‘99. E ancora prima: lo rappresentarono come una sorta di teorico dello Stato Forte (anzi peggio: come la mente «dello sviluppo dello Stato secondo i nuovi termini dell’imperialismo») era invece, Roberto Ruffilli, un’eccellenza dell’Italia democratica e democristiana, un consulente di De Mita, trucidato a Forlì il 16 aprile dell’88 come simbolo di una torsione destrorsa (ma ci rendiamo conto dell’abisso di delinquenziale idiozia?) della politica italiana? 

Faceva impressione l’altra sera, in una tivvù, ascoltare un noto scrittore che paragonava il 2022 al 1922 e parlava di «nuova Resistenza». Senza rendersi conto del peso pericoloso di questo paragone bislacco. In un contesto così, possono sguazzare facilmente sigle come il movimento Cambiare Rotta Roma (ci sono altri nuclei in altre città?), ossia quello dello striscione anti-La Russa che nel suo esordio vuole mostrarsi come una vera e propria nuova organizzazione decisa a colpire. Chi avrebbe mai immaginato, ai loro albori, che le Brigate Rosse sarebbero diventate le Brigate Rosse capaci di rapire e uccidere Moro. E a proposito: «Meloni come Moro», è stata una minaccia neo-brigatista scritta durante l’ultima campagna elettorale. Quella che era cominciata all’insegna di un certo vicendevole rispetto tra sinistra e destra e poi, gradualmente, mentre si evidenziava che avrebbe vinto il fronte meloniano i toni si sono inaspriti, l’odio ha fatto capolino e la presentazione apocalittica della vittoria della coalizione anti-Pd è andata lievitando ed è diventata la base per preparare il dopo, cioè l’adesso. E occorre fermarsi in tempo.

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