Francesco Grillo
Francesco Grillo

Dopo la pandemia/ La svolta digitale che occorre alla Sanità

di Francesco Grillo
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Martedì 8 Giugno 2021, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 01:11

Per decenni abbiamo considerato il Sistema Sanitario Nazionale come una zia affettuosa sulla quale poter contare quando davvero c’è bisogno di aiuto. Avanti con gli anni, acciaccato ma comunque affidabile e sostenuto dalla passione che è naturalmente legata all’idea stessa di avere a che fare con la vita delle persone. 

Oggi, però, mentre tentiamo faticosamente di uscire da una guerra che ha avuto negli ospedali il proprio fronte, non possiamo non fare i conti impietosi di una pandemia che trova l’Italia al secondo posto tra le economie più sviluppate (G20) per numero di morti rispetto alla popolazione. E con la fragilità di un’organizzazione che è rimasta ferma, mentre crescevano bisogni di salute nuovi e minacce mai viste prima. 

Per portare la sanità italiana nel ventunesimo secolo non sono sufficienti più risorse. È indispensabile una riorganizzazione radicale; anzi un forte ripensamento del modo stesso attraverso il quale una società tecnologicamente evoluta «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo».

La sanità italiana è, nettamente, quella con i medici più anziani del mondo. Nel 2018 il 55% dei medici italiani aveva più di 55 anni: una percentuale di cinque punti superiore a quella del secondo Paese (Israele) con il sistema sanitario più vecchio del pianeta e in enorme aumento rispetto al dato della stessa Italia nel 2000 (quando era del 18%). In pratica, è come se in vent’anni i medici italiani fossero rimasti sempre gli stessi per essere poi sorpresi dalla più grave crisi sanitaria degli ultimi 80 anni mentre tutti si stavano avvicinando in massa alla pensione. 

Il dato sull’età media si riflette in una più generalizzata scarsa propensione all’utilizzo di tecnologie alle quali viene ancora chiesto di fare miracoli in situazioni molto difficili e che, invece, sono lo strumento per portare la sanità fuori dagli ospedali e molto più vicina alle persone, in grado di prevenire piuttosto che curare. 

Non è, peraltro, particolarmente costoso il Sistema Sanitario Nazionale: è vero che nel 2020 ci è costato 123 miliardi di euro (un terzo dell’intera spesa delle amministrazioni pubbliche), ma è una cifra rimasta praticamente ferma in termini nominali al 2010 (e, dunque, scesa se consideriamo l’inflazione) e comunque di poco superiore alla metà di quello che spendono per abitante in sanità pubblica i tedeschi o i francesi. Sono tuttavia gravi, nonostante le rassicurazioni del Ministero della Salute il cui sistema di monitoraggio riferisce che i livelli essenziali di assistenza sono garantiti ovunque, le solite differenze tra Nord e Sud: ogni anno 170 mila pazienti si spostano dalle quattro grandi regioni del Mezzogiorno per farsi curare in Lombardia e in Emilia Romagna. 

Nonostante ciò, secondo Bloomberg, quello italiano resta ancora il quarto migliore sistema sanitario del mondo. O almeno lo era fino al giorno in cui un virus arrivato dalla Cina non lo ha messo in ginocchio.

Tra i grandi Paesi siamo quello con il più alto tasso di letalità (dei decessi, cioè, rispetto al numero di persone che si sono contagiate) e tale triste primato vale anche nei confronti di società che sono anziane tanto quanto quella italiana (la Spagna o il lontano Giappone). 

Molto in questi mesi si è parlato dell’effetto di tagli che avrebbero scoperto i nervi di un sistema che era già vicino al tracollo. E molto del fallimento di Regioni che – con qualche eccezione fatta di competenze che non possiamo permetterci il lusso di disperdere – la pandemia ha reso evidente. E, tuttavia, il punto vero è che un intero sistema è stato superato da una rivoluzione che impone di riorganizzare continuamente l’offerta di servizi sanitari attorno ai dati che le tecnologie rendono disponibili. 

Sono due i criteri che devono ispirare una riforma del sistema. Da una parte conterà molto di più il livello locale e la capacità della sanità di arrivare al singolo cittadino per prevenire malattie e promuovere stili di vita che siano salutari, nonché di seguire i malati cronici e gli anziani limitandone l’ospedalizzazione. Importantissimo il ruolo che svolgeranno i medici di base, da riaggregare in piccoli team che siano responsabili di intere comunità di alcune migliaia di abitanti. Ma, ovviamente, conteranno molto i sensori che stanno rendendo possibile seguire - in tempo reale e senza fastidiose invasioni - le condizioni di salute di tutti e di personalizzare consigli e cure.

All’estremo opposto di un sistema sanitario del futuro, ci sarà molto più livello centrale. I sistemi sanitari del Novecento erano basati sull’idea che ciascuno deve essere fisicamente vicino a tutti i servizi essenziali; è evidente che se questo principio fosse sostituito dalla garanzia che ogni persona deve poter accedere a quei servizi in maniera digitale, l’intero sistema andrebbe riprogettato. Gli ospedali si specializzerebbero puntando sui propri vantaggi competitivi e un livello centrale (Stato nazionale o Unione Europea) più forte si dedicherebbe a creare l’infrastruttura digitale per renderli accessibili a distanza, ad aggregare e analizzare le informazioni indispensabili per programmare e rispondere alle emergenze, a lanciare ed accompagnare imprese capaci di fare innovazione alla frontiera tra biologia ed Internet. 

Le Regioni, troppo piccole per garantire le economie di scala che la modernizzazione richiede, troppo grandi per essere vicino alle singole comunità locali, sono da ridimensionare per questa ragione: perché espressione di un’organizzazione dello Stato che il progresso tecnologico sta erodendo. Questa riflessione strategica manca allo stesso Piano Nazionale di Resilienza e Rilancio al quale affidiamo la possibilità di cambiare il Paese. Ed è, però, più di strategia e di coraggio che non di risorse che abbiamo bisogno in un contesto nel quale sembrano smarrirsi anche le poche certezze che davamo per scontate. 
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