Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Scuole pericolanti/ Mettiamo in sicurezza il futuro dei bambini

di Paolo Balduzzi
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Lunedì 28 Novembre 2022, 00:00

Dal Nord al Sud di questo fragile Paese, non ci sono regioni e comunità che non abbiano racconti di disastri ambientali da raccontare ai propri figli e da consegnare alla storia. L’elenco è ormai lunghissimo e solo la fredda statistica può certificare, senza lasciarsi cogliere dall’emozione e dalla rabbia, se davvero questi eventi sono sempre più frequenti o se è solo la nostra impressione. Sono passati solo tre mesi dall’alluvione nelle Marche, qualcuno in più dai nubifragi in Toscana e Lombardia.

Calamità che chiamiamo “naturali” e che hanno portato morte e distruzione. 
Ma cosa c’è davvero di naturale in ciò che accade? Tutto, vorremmo rispondere. Si tratta del resto di piogge, eventi climatici estremi, frane, terremoti: è indiscutibile registrare queste manifestazioni come indipendenti dalla volontà o dalle colpe dell’uomo. A ben vedere, purtroppo, si tratta di un’illusione. C’è ovviamente parecchia fatalità. Ma non si tratta solo di questo. Forse è ancora troppo controverso insistere su come sia proprio l’attività umana a cambiare il clima e quindi la violenza e la frequenza di questi eventi. E non lo faremo. Ma se rimangono naturali le cause di questi drammi, le loro conseguenze non possono essere derubricate come tali. Non è naturale, appunto, che una pioggia, per quanto torrenziale, spazzi via strade, abitazioni, ponti, vite. L’acqua si comporta come ha sempre fatto: cade dal cielo, più o meno violentemente, da prima che l’uomo facesse la sua comparsa nella storia. Migliaia di anni di osservazione di fenomeni climatici hanno portato forme di vita sempre più intelligenti prima a spostarsi sempre, come uccelli migratori, e poi a stabilirsi in zone comode per l’agricoltura e i commerci. Quando visitiamo un acquedotto romano, una piramide egizia, una città Inca o un tempio Maya, viene immediato chiedersi come strutture che hanno migliaia di anni possano sopravvivere così bene al tempo quando le nostre città sono a rischio continuo. Forse, nel corso della nostra evoluzione, è cambiato il rapporto che abbiamo con l’ambiente: dalla consapevolezza che l’uomo dovesse sottostare alle leggi, ai tempi e alle esigenze della natura al suo esatto contrario. 

Non c’è luogo dove l’uomo non voglia insediarsi, costruire, dominare. Una ricerca del 2017 del Cresme (Centro ricerche economiche sociologiche e di mercato nell’edilizia) riporta come siano otto milioni gli italiani che vivono in un’area ad alto rischio (sismico o idrogeologico), mentre sono addirittura quasi dodici milioni coloro che vivono in una zona a rischio medio-alto. In sintesi, un italiano su cinque. Nello specifico dell’ultima tragedia di Ischia, già ieri Mariagiovanna Capone e Ciro Cenatiempo hanno documentato sul Messaggero una situazione al limite dell’incredibile: negli ultimi quarant’anni sull’isola sono state presentate 27.000 domande di condono edilizio. In media, quasi un abitante su due ha chiesto di regolarizzare un abuso. Pochissime, ovviamente, le pratiche analizzate; altrettanto pochi gli abusi sanati. Un caso esemplare di ciò che giornalisticamente si presenta come una “tragedia annunciata”. È inutile fare polemiche quando ancora si stanno cercando persone, quando il conto delle vittime non è concluso e tantomeno quello dei danni.

Allora meglio concentrarsi su come fare per cercare di evitare il ripersi di tragedie simili. O forse, tristemente, su come fare solo per limitarle. Perché il paese che ci troviamo oggi tra le mani è impossibile da salvare interamente. La responsabilità di ciò ricade su diversi livelli: su quei cittadini che non rispettano le indicazioni dei Piani di governo del territorio comunali; su quei costruttori che per risparmiare usano prodotti scadenti; su quegli amministratori locali che, per tornaconto elettorale o per mancanza di personale, chiudono occhi, orecchie e dubbie pratiche edilizie; su governi nazionali che solo sulla carta prevedono politiche di riqualificazione urbanistica e territoriale ma poi, per mancanza di fondi o di continuità politica, lasciano naufragare tutte queste belle intenzioni. E allora, di fronte a questo ennesimo naufragio, come si reciterebbe un vecchio film, si salvino almeno “le donne e i bambini”. La scialuppa, almeno per i più piccoli, è quella degli edifici scolastici.

I nostri figli passano un terzo della loro giornata in costruzioni che dovrebbero accoglierli, crescerli e soprattutto proteggerli. A volte, al contrario, questi edifici si trasformano in trappole mortali. Chi fa la manutenzione delle nostre scuole? La legge assegna la manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici scolastici, dall’infanzia alla secondaria di primo grado, ai comuni, mentre sono le province (o città metropolitane) competenti per la scuola secondaria secondo grado; spettano invece al Ministero dell’istruzione le attività connesse alla sicurezza delle scuole e all’edilizia scolastica. La verità? È che di tutto questo si occupano invece troppo spesso i genitori e qualche volontario. In molte scuole italiane, gli imminenti giorni di vacanza natalizi saranno dedicati a svuotare i canali di scolo, a pulire i giardini, a ritinteggiare aule e corridoi. Il tutto grazie all’opera generosa e costante delle famiglie. È un paese normale quello dove i bambini devono portare fazzoletti, carta assorbente e rotoli di carta igienica nelle scuole? È un paese serio quello dove si vendono torte e si organizzano lotterie per acquistare materiale didattico? Ingeneroso sarebbe colpevolizzare l’ultimo governo, in carica da poco più di un mese, ma altrettanto doveroso è ricordare al Presidente del consiglio e ai ministri competenti lo stato delle cose. Secondo un rapporto del servizio studi della Camera dei deputati dello scorso settembre, in Italia c’è un patrimonio edilizio scolastico composto da poco più di 40.000 edifici, gestiti dagli enti locali. Il certificato di collaudo statico (obbligatorio) è posseduto solo dalla metà di questi edifici, il certificato di prevenzione incendi da un quarto, quello di agibilità da poco più di un terzo. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) destina a interventi di edilizia scolastica, per il quinquennio 2021-2026, 9,6 miliardi di euro, circa 240.000 euro per edificio. Da arrotondare, per l’appunto, con la vendita di dolci fatti in casa. Se davvero si volesse rimettere mano al Pnrr, allora, ci augureremmo che sia proprio per aumentare le risorse a disposizione - e velocizzare i tempi - della messa in sicurezza del nostro futuro.

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