Francesco Grillo
Francesco Grillo

Servono scelte forti/ La società descolarizzata genera nuovi mostri

di Francesco Grillo
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Venerdì 26 Giugno 2020, 00:12
La nota trasmessa dalla Ministra Azzolina alla Conferenza delle Regioni sulla riapertura delle Scuole, sembra essere un ultimo tentativo di proporre un piano di uscita dalla più grave delle numerose crisi che l’Italia sta affrontando dall’inizio di marzo. 

Tuttavia, il progetto del Ministero è, ancora una volta, riuscito a coalizzare posizioni assai differenti in un unico rifiuto che, però, rischia di lasciarci nel pantano per altre settimane. In realtà, per uscire dalla palude nella quale sta affondando un pezzo del futuro di un Paese, è necessario, davvero, credere alle parole dalle quali parte lo stesso documento del Ministro. 
Sono le difficoltà eccezionali nelle quali ci troviamo che ci danno l’energia per prenderci qualche rischio in più e tentare di realizzare riforme rimaste sempre a metà. 

Per riuscire, però, non basta un solo Ministro; è necessario che un’intera comunità nazionale si rassegni all’evidenza che per salvarsi deve cambiare drasticamente le proprie priorità e riorganizzarsi attorno alla Scuola e all’Università, come se fossero il proprio centro. L’unico luogo nel quale si può ricostruire futuro. Nessun altro Paese al Mondo, ha tenuto chiuso le Scuole per così tanto tempo come l’Italia. 

Nei numeri dell’Unesco che sta monitorando l’evoluzione delle chiusure a livello globale, nell’Unione Europea sono solo sette i Paesi che continuano a tenere vuote le aule, ma siamo stati i primi in Europa a bloccarne l’ingresso. Nessuno ha dissipato una quota parte così imponente del proprio capitale umano e ciò peserà sulla crescita di lungo periodo; in un Paese che già dovrà fare i conti – in tempi molto più brevi - con la più elevata contrazione del Prodotto Interno Lordo, secondo le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale. 
Eppure, da un problema così enorme potrebbe venire la spinta per forzare alcuni degli elementi di cambiamento che – nonostante decine di riforme – sono rimasti incompiuti.
In effetti, sono tre gli ingredienti di cui abbiamo assoluto bisogno per ritrovare a settembre, una scuola che sia all’altezza di quelle che era la nostra storia e delle sfide di un futuro che ci sta piombando addosso. Più potere decisionale ai singoli istituti e un patto con i Comuni nelle quali operano. Valutazione e meccanismi di trasferimento di competenze dalle scuole migliori a quelle più in difficoltà, in maniera da riuscire nell’impresa di produrre coesione attraverso la competizione. E, ovviamente, più risorse. Sono questi i pilastri di una riforma finalmente capace di ottenere i risultati sfuggiti a generazioni di ministri e che la Commissione Europea è intenzionata a chiederci come condizione di accesso a quel piano Marshall (Next Generation Eu e bilancio comunitario) dai quali, letteralmente, dipende la sopravvivenza di uno Stato.
Sul primo punto, il Ministero sembra fare un passo avanti. Si prende, infatti, atto dell’impossibilità tecnica di governare da roma un’organizzazione così grande (800 mila dipendenti e 9 milioni di studenti) e diversificata in un Paese reso lunghissimo da differenze territoriali che il virus ha ulteriormente dilatato. Sono i presidi ad essere chiamati a dare sostanza ad un principio di autonomia introdotto vent’anni fa. Sono loro che devono coordinare la riprogettazione degli spazi e dei tempi della formazione. Ed è sacrosanto immaginare che tutto ciò vada fatto attraverso “patti di comunità” che affianchino all’istituto scolastico, l’Ente locale che ha competenze sull’edilizia scolastica e sui trasporti. 

Incompleta è, però, l’articolazione della proposta e non poteva essere altrimenti se quella per la Scuola non diventa una battaglia attorno alla quale ristrutturare l’articolazione dello Stato: se sono i Comuni il partner più importante delle Scuole, subito va affrontata la questione di rendere gli Enti Locali meno numerosi e più forti dal punto di vista finanziario; di completare una riforma delle province rimasta pericolosamente sospesa; di saltare un’intermediazione di Regioni che sono, comunque, troppo lontane da una ricostruzione che ogni comunità deve poter adattare alle proprie caratteristiche.

Se però non abbiamo la forza politica di affrontare gli altri due punti di una riforma vera – valutazione e risorse, anche i dirigenti scolastici si ritrovano con le armi spuntate. È giustissimo dare più indipendenza agli istituti, allargandola, anzi, alla possibilità di acquistare banchi e infissi necessari per distanziare. Tuttavia, ciò non è finanziariamente fattibile se non assegniamo – sin dalla prossima finanziaria – risorse specifiche alle singole scuole; e non lo è politicamente, se alla maggiore autonomia non corrispondono modalità di identificazione delle modalità organizzative più efficaci per trasferirle ai territori maggiormente in difficoltà.
Ma per riuscire a vincere la sfida della scuola, è indispensabile, in realtà, superare tre convinzioni pigre. 

La prima è che l’istruzione non produce Prodotto Interno Lordo: in realtà ogni giorno di chiusura ci sta costando almeno ottocento milioni di euro al giorno (sulla base di analisi sul minore valore della didattica a distanza condotte in Paesi, come la Norvegia o la Danimarca, che, pure, sono più attrezzati per studiare a casa). La seconda è che la scuola non sposta voti: ed invece, un partito come la Democrazia Cristiana che di consenso si intendeva, era talmente certa del contrario, che mai abbandonò il Ministero di Trastevere fino a quando rimase in vita. 

La terza è che sono i Sindacati a costituire un ostacolo invalicabile per chiunque provi la missione di trasformare la Scuola: è vero, indubbiamente, che la percentuale di docenti iscritti al sindacato è superiore a quella registrata tra gli operai metalmeccanici dalle cui lotte il sindacato è nato; e, tuttavia, un sindacato così forte non è riuscito negli ultimi anni ad evitare una riduzione degli stipendi che, in nessun altro Paese europeo è stata così forte. Oggi quel sindacato sta seduto su contraddizioni che lo rendono vulnerabile. Incompatibile, persino, con la propria storia e con i bisogni di altri milioni di lavoratori che hanno visto i propri figli sacrificare una parte importante della propria crescita.

È vero che del virus dovremmo conservare una parte della carica che ci serve per poter recuperare la convinzione per poter riuscire. È, però, la Scuola a dimostrarci, con forza, che per riuscire a vincere una battaglia di sopravvivenza, dovremo abbandonare l’idea di accontentare tutti in contesti che sono, ormai, frammentati in interessi microscopici. E partire da un’idea di società nuova che non possiamo più frammentare tra le mille competenze di ministeri e amministrazioni diverse.
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