Giuseppe Vegas
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Esigenze diverse/ Il salario minimo e le criticità da risolvere

di Giuseppe Vegas
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Sabato 18 Marzo 2023, 23:59
Uno dei principali temi identitari della sinistra per questa legislatura è quello della battaglia per il salario minimo. Lo abbiamo visto la scorsa settimana, quando nell’aula della Camera si è consumato lo scontro tra il premier Giorgia Meloni e la guida dell’opposizione Schlein. Ne abbiamo avuto la conferma al congresso della Cgil, dove Meloni ha ribadito la sua contrarietà.
In realtà, avevamo già avuto avvisaglie di uno scontro con la maggioranza di governo quando, nel novembre scorso, il Parlamento si era pronunciato in senso contrario alla sua adozione. Oggi non si può ritenere che con quel voto la questione si sia chiusa, dato che basterebbe attendere i sei mesi prescritti dal regolamento per poter ridiscutere il tema. Dunque il salario minimo si ripresenta nell’agenda politica.
Ritorna grazie ad una direttiva europea del 2022, che dava tempo ai singoli Paesi per recepirla fino al novembre 2024. Finalità della normativa comunitaria è di promuovere l’adozione di salari minimi adeguati per tutti i lavoratori, allo scopo di sconfiggere il triste fenomeno del “lavoro povero”. Di quel lavoro cioè che, essendo retribuito con salari insufficienti per gli attuali bisogni di vita e non proporzionati alla quantità e qualità dell’attività prestata, condanna molti all’indigenza e all’impossibilità di programmare un futuro per sé e per la propria famiglia. Senza contare il fatto che i bassi livelli stipendiali provocano un danno non solo ai lavoratori, ma anche, e non si tratta di problema di poco conto alla comunità nazionale: le paghe basse costringono i giovani più qualificati e brillanti ad espatriare per ottenere un trattamento adeguato. Giovani che difficilmente torneranno. Va però ricordato che la direttiva europea non obbliga ad adottare il sistema del salario minimo, che può nascere da un obbligo determinato dalla legge o dalla contrattazione tra le parti sociali. La direttiva chiede ai Paesi che facciano tutto il possibile affinché chi lavora possa disporre di una retribuzione adeguata: salario minimo è la suggestiva espressione che sintetizza in uno slogan la necessità di adottare politiche che consentano ai lavoratori di accrescere il loro benessere. Si tratta di una via non necessariamente risolutiva del problema, ma oltre che suggestiva di semplice attuazione, soprattutto quando si sceglie la via dell’obbligo. Non a caso, quello di definire per legge la somma minima da corrispondere mensilmente è un sistema adottato dalla larga maggioranza degli Stati europei, dove si viaggia dai 332 euro della Bulgaria ai 1.700 euro di Belgio, Francia e Germania. Per tacere della Confederazione Elvetica, che lo ha fissato a 4.000 franchi, con la possibilità però di dar luogo anche a rapporti di lavoro “in grigio”. Da noi fino ad oggi è stata preferita la via della contrattazione collettiva, senza però l’obbligo legale di adottarla. Secondo i dati del Cnel, il 98% dei lavoratori italiani sarebbe tutelato da contratti collettivi. Ad esempio, per i lavoratori metalmeccanici il minimo per il 2023 è di 1.509 euro lordi mensili. Ma per altri tipi di lavoro si scende anche alla metà. Non si tratta di un sistema efficiente, sia per il fatto che l’elevato numero di contratti particolari preclude una visione complessiva del fenomeno, sia in ragione del fatto che la sua applicazione ha fatto sì che il salario lordo medio annuo si sia attestato a circa 27.000 euro, a fronte dei 37.000 della media europea. Senza contare il fatto che negli ultimi trent’anni il valore reale dei salari italiani è diminuito. Di qui la necessità di affrontare risolutamente il fenomeno. Tuttavia, quando si passa alle proposte concrete, emerge un certo grado di insoddisfazione. Se, infatti, il testo del progetto di legge pentastellato prevede esplicitamente un salario minimo di 9 euro, quello fino ad ora disponibile del Pd (resterà lo stesso dopo l’affondo sul tema della neosegretaria Schlein?) opera un rinvio alla contrattazione collettiva per definirne il valore. Entrambi i metodi contengono pregi e difetti. La definizione normativa del livello salariale è facilmente comprensibile all’opinione pubblica. Però, se il valore è uguale per tutti, non tiene conto delle differenze tra i diversi tipi di lavoro e delle specifiche realtà territoriali. Inoltre, non riesce a risolvere il problema della fuga dei cervelli, dato che, per sua natura, il minimo salariale non può che essere fissato ad un livello ragionevolmente basso. In sostanza, l’egualitarismo prevarrebbe sui reali bisogni della società. Contemporaneamente, non si possono ignorare le condizioni in cui opera il sistema delle imprese, che devono sopportarne i costi. In definitiva, tutta la responsabilità di una scelta delicatissima e delle sue conseguenze sociali si scaricherebbe sulle sole spalle del governo. Per non dire del rischio di un aumento della conflittualità, evento non auspicabile, qualunque sia il governo in carica. Il metodo del ricorso alla contrattazione collettiva si mostra più elastico ed adattabile, anche a livello decentrato. Tuttavia lascerebbe del tutto irrisolta la questione delle crescenti moltitudini di professionalità che oggi non si sentono rappresentate dai sindacati tradizionali. Ne risulterebbe un mondo del lavoro duale: chi è rappresentato risulta protetto, mentre chi non lo è non trova ripari contro quei fallimenti del mercato del lavoro che proprio l’intervento pubblico vorrebbe correggere. Ecco dunque la necessità di un intervento rapido e risolutivo, che sia il compromesso ipotizzato dal governo Draghi o una legge sulla rappresentanza che stabilisca quali sono i contratti più rappresentativi, in considerazione del fatto che anche il governo Meloni è orientato a valorizzare la contrattazione collettiva. Ma è indispensabile che si faccia presto, perché altrimenti prevarrà la via indicata da coloro che non accettano più un lavoro mal retribuito e che quindi chiedono una contrattazione libera; che per sua natura sarebbe lo strumento ideale perché favorisce l’incontro tra domanda e offerta ma che certamente lascerebbe indietro i tanti che non hanno strumenti per difendersi di fronte all’avanzare delle grandi concentrazioni economiche il cui interesse primario non sono certo i diritti dei lavoratori.
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