Giuseppe Vegas
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Oltre i salari/L’occupazione in crisi e la lezione dei Romani

di Giuseppe Vegas
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Sabato 22 Aprile 2023, 23:49 - Ultimo aggiornamento: 24 Aprile, 00:17

È di questa settimana la richiesta di molte organizzazioni sindacali di prevedere nei prossimi contratti aumenti salariali che si avvicinano al 15%. Pochi giorni fa il Tribunale di Milano ha giudicato incostituzionale la corresponsione di una paga oraria contrattuale di 3,96 euro, ritenendo che si tratti di un livello salariale che pone il lavoratore sotto la soglia della povertà, violando così l’articolo 36 della Costituzione, che sancisce il diritto ad ottenere una retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.


Il tema dell’adeguatezza delle retribuzioni nel nostro Paese è una questione dibattuta da tempo. Importante sia in termini assoluti sia comparativi. Non è da oggi che gli stipendi sono fermi su livelli che comprimono troppo il potere di acquisto delle famiglie e che penalizzano la parte più giovane della popolazione in età di lavoro. Quest’ultima si trova in sempre maggiori difficoltà ad affrontare le scelte di vita più basilari, dall’abitazione all’indipendenza, fino alla famiglia. La bolla inflazionistica dell’ultimo anno ha poi ha aggravato la situazione. La comparazione con gli stipendi offerti per gli stessi lavori dai nostri concorrenti europei ha fatto il resto. Basti pensare che un neolaureato italiano rischia di prendere la metà, e a volte un terzo, di quanto gli viene offerto Oltralpe. 


E la differenza del costo della vita non giustifica la disparità, ma favorisce, in taluni casi obbliga, la fuga dei cervelli. Non si tratta quindi solamente di una attitudine diversa dal passato e relativa a scelte di vita individuali.
Mentre prima dell’avvento dell’euro si affrontava la concorrenza internazionale con lo strumento delle svalutazioni della lira, oggi si tende a risolvere il problema cercando di contenere i costi delle aziende, consentendo di adottare la strada di paghe oggettivamente inadeguate a un costo crescente della vita. Ovvia conseguenza è che, sebbene non mancheranno evocazioni dei rischi di riproporre qualcosa di simile alla famigerata “scala mobile”, prima o poi i datori di lavoro pubblici e privati saranno costretti a cedere. Anche perché quella che è diventata scarsa non è più la domanda di lavoro, ma l’offerta, se è vero che mancano, secondo le differenti valutazioni, almeno 250 mila lavoratori o addirittura un milione in base ai dati forniti da ultimo dalla ministra del Lavoro. La conseguenza di questo stato di cose non potrà certo rimuovere le difficili condizioni in cui si muove il sistema delle imprese già oggi. Probabilmente le peggiorerà nel futuro.


Si verrebbe così a creare una situazione di accresciuta difficoltà potenzialmente in grado di originare conseguenze di carattere macroeconomico non da poco. Sotto molteplici profili. Anzitutto, sul sistema delle imprese. Quelle che potranno, pagheranno di più i lavoratori, ma non è detto che saranno in grado di mantenere gli stessi livelli occupazionali di oggi. Quelle che non se lo potranno permettere chiuderanno o emigreranno. Tra l’altro, dato che ci troviamo in una precipitosa fase di transizione verso tecnologie più avanzate, non è assicurato che l’odierna sia una stagione di distruzione creatrice di schumpeteriana memoria. Potrebbe rivelarsi di sola distruzione. Anche se chi sopravviverà sarà molto più solido e competitivo a livello internazionale. In ogni caso, la probabile fase transitoria che inevitabilmente si presenterà in un primo periodo non esclude effetti negativi sull’andamento del Pil.


D’altra parte, non basta pagare meglio chi già lavora, ma inevitabilmente occorrerà anche offrire stipendi competitivi a chi è ancora inattivo.

Si tratta di potenziali lavoratori, il cui numero si va assottigliando rispetto all’indispensabile necessità di mantenere operativo il settore privato e di garantire il pieno svolgimento delle funzioni pubbliche. Occorrerà quindi metter mano al portafogli. Con la conseguenza non desiderata che la maggiore liquidità riversata sul mercato rischierà di trasformarsi in benzina, se non per alimentare una nuova fiammata inflazionistica, quanto meno per rendere più difficile il rientro da quella attualmente in corso. Con i correlati perniciosi effetti sulle categorie non protette dall’inflazione.


Non mancherebbero anche conseguenze sul Tesoro, che potrebbe improvvisamente trovarsi a dover affrontare interessi sul debito fortemente cresciuti e nella necessità di fronteggiare il peggioramento dei conti pubblici.
La risposta a come maneggiare questo immenso problema non è agevole. Certamente è indispensabile aumentare il livello di istruzione delle nuove generazioni, anche se occorre prima disporre dei docenti necessari. Vanno adottate politiche fiscali incentivanti, ma qui ci si scontra con gli angusti sentieri di una spesa pubblica che si muove tra Scilla e Cariddi. Si deve poi rapidamente affrontare il problema della natalità, tema peraltro già all’attenzione del governo. Tuttavia, mentre i problemi da risolvere sono pressanti e necessitano di una risposta immediata, è difficile pensare che gli effetti positivi in primo luogo dell’inversione della tendenza demografica si possano misurare prima di una generazione, cioè tra circa trent’anni. Ciò non significa che non siano decisioni politiche indispensabili e da assumere in tempi rapidi, ma molto probabilmente che non sono sufficienti. Ma occorre operare. E presto.


Anche perché un forte incremento delle nascite è sì indispensabile, ma non sarebbe in grado di invertire dall’oggi al domani il trend demografico sfavorevole, che, tra l’altro è calcolato sulla base della popolazione residente. Consentire l’ordinato aumento del numero dei residenti in grado di far fronte alla crescente offerta di lavoro potrebbe rappresentare la scelta, addizionale rispetto a quelle sopra descritte, più ragionevole. Ma, per ottenere un risultato tangibile, è indispensabile che un problema di vitale importanza per il nostro futuro non sia più affrontato da tutte le parti in contesa esclusivamente partendo da un a priori ideologico e non razionale, bensì sulla base della condivisione di un terreno comune di valori. In sostanza, occorrerebbe affrontare lo spinoso tema dell’immigrazione nella consapevolezza che non è possibile accogliere tutti, né respingere tutti. Si possono però definire strumenti per agevolare l’ingresso nel nostro territorio di lavoratori qualificati o comunque disponibili a contribuire ai processi produttivi nazionali. Per ottenere il risultato, però, occorre renderne maggiormente attrattivo il contesto economico e sociale. E soprattutto bisognerebbe affrontare con realismo e senza pregiudizi il tema della cittadinanza. Gli antichi romani non si fecero scrupoli: su questo fronte hanno molto da insegnarci.

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