Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Tempi stretti/ Le riforme urgenti che l’Europa ci chiede

di Paolo Pombeni
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Giovedì 7 Settembre 2023, 00:21

Delle riforme si parla con alterna fortuna. La riforma del ruolo del Presidente del Consiglio, semipresidenzialismo o cancellierato, sempre all’italiana, che sia, anima il dibattito degli addetti ai lavori ma fino ad un certo punto. Quella della riforma della giustizia ha ripreso il suo iter parlamentare, ma non sembra in fase di decollo. Di quella sulla concorrenza, che include balneari e taxi, non si parla quasi più.
Eppure ci sono almeno due ragioni importanti perché non si lasci perdere. In alcuni casi perché sono almeno in parte impegni che abbiamo preso con l’Unione Europea per ottenere i fondi del Pnrr: è il caso della giustizia per quanto riguarda gli arretrati da recuperare, altrettanto per quel che riguarda la concorrenza. Nel caso del ruolo e dei poteri del Presidente del Consiglio, perché si tratta del capitolo di una riforma del nostro sistema istituzionale, oggetto da tempo (troppo tempo) di dibattito inconcludente.

Inutile nascondersi che in tutti questi casi ci sono molti interessi da comporre. La riforma della giustizia vede concorrere le posizioni dei magistrati, quelle degli avvocati, ma anche quelle di molti “utenti” del sistema che vorrebbero poter contare su un suo più adeguato funzionamento. Districarsi a separare gli interessi di parte da quelli generali non è impresa semplice, considerando che ogni componente la butta sulla difesa dei sommi principi, si parli di prescrizione, di abolizione del reato di abuso d’ufficio, di separazione delle carriere fra magistratura giudicante e magistratura inquirente.

Apparentemente più facile spiegare il tema della revisione del ruolo del Presidente del Consiglio. Quasi tutti d’accordo sul fatto che in Costituzione è mal disegnato, ma pronti a dividersi sul se nella prassi quello che oggi si comincia impropriamente a chiamare “premier” non abbia già imposto un nuovo modello che gli consente una posizione abbastanza forte. Il nodo della discussione è se un’investitura popolare diretta renderebbe il vertice dei ministri più autorevole e più in grado di imporsi, ma anche qui poi si discute se questa designazione popolare diretta debba avvenire con un voto esclusivo su una persona a cui si conferisce quel ruolo al di fuori di altri contesti (come avviene, almeno in teoria, per sindaci e presidenti di regione), oppure se la si debba collocare all’interno della scelta di una maggioranza di governo.

Per il grande pubblico non è facile capire le tecnicalità di queste scelte, il cui nodo, se lo si volesse spiegare, consiste in una cosa relativamente semplice: il nuovo premier deve essere una figura da collocare all’interno del sistema parlamentare, il che implica che in quella sede, pur con garanzie, si possa passare la fiducia ad un altro, oppure si deve trattare di una sorta di piccolo principe, per cui se perde la fiducia parlamentare che gli consente di governare si può solo ricorrere al corpo elettorale per tornare ad investire o lo sfiduciato o qualcun altro.

Come sempre (avvenne così anche in Costituente) mentre si discute di teoria costituzionale si cerca di figurarsi cosa potrebbe succedere se poi il premier selezionato non si rivelasse all’altezza del compito. La storia insegna che non c’è garanzia che “il popolo” incoroni sempre il più adatto. Inoltre non sembra una grande idea ingessare l’attività del parlamento nella semplice dicotomia fra il sostenere comunque le decisioni e le azioni dell’eletto e il mandarlo a casa accettando un nuovo ricorso alle urne, con le tensioni e talora i rischi che ciò comporta (la demagogia è pur sempre una componente presente nella maggior parte dei sistemi politici).
Naturalmente in parallelo c’è il tema del ruolo da assegnare al Presidente della Repubblica.

Avendo apprezzato in molte contingenze difficili il ruolo di moderatore e mediatore che si può esercitare dal Quirinale, ci si chiede se convenga indebolirlo, visto che dovrebbe misurarsi con un premier direttamente consacrato dal voto popolare. D’altro canto spingere quei poteri al livello di giudice supremo di ciò che sarebbe meglio per l’equilibrio del sistema è a sua volta rischioso. Chi garantisce che un presidente eletto dalla maggioranza delle forze parlamentari sia inevitabilmente una figura in grado di gestire al meglio il compito delicatissimo di equilibratore del sistema?

Sarebbe il caso di porsi il tema di un modo di elezione dell’inquilino del Colle maggiormente in grado di essere percepito come garanzia di rappresentante della nazione (e non della sola classe politica). Già così si potenzierebbero le sue capacità di essere ad un tempo controllore di un corretto svolgimento della dialettica politica e promotore di un incremento del confronto e del dialogo fra tutte le componenti del sistema (quelle sociali e culturali oltre quelle politiche).

Un serio sforzo per avviare una sistemazione dei vertici del nostro sistema politico-decisionale in rapporto ai tempi non facili e alle mutazioni che stiamo vivendo sarebbe non solo un bene in sé, ma un contributo a forzare il sistema a farsi carico di tutte le altre riforme pendenti superando il gioco sterile dei veti incrociati fra i tradizionali beneficiari del “vecchio” sistema.

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