Beniamino Caravita

Soluzioni possibili/ La riforma delle Camere che agita la politica

di Beniamino Caravita
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Lunedì 19 Luglio 2021, 00:09

Sono decenni che ci diciamo che quasi mille parlamentari sono troppi, specie dopo l’istituzione dell’assemblea parlamentare europea (1978) e dei consigli regionali (1970). Sono decenni che ci lamentiamo del bicameralismo paritario e perfetto e ci diciamo che siamo l’unico Paese in questa lamentevole situazione. Sono almeno due decenni che ci diciamo che i poteri regionali sono sbilanciati, specie in una situazione in cui manca qualsiasi forma di rappresentanza centrale delle entità substatali e decentrate. Sono decenni che ci diciamo che il nostro problema è la stabilità del governo, salvo poi dividersi se scegliere il modello francese dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica o il modello tedesco del Cancellierato e, per evitare di prendere posizione, lavoriamo su improbabili e mai funzionanti riforme della legge elettorale (che da sole non bastano).


Eppure, la soluzione alle nostre lamentele potrebbe essere oggi a portata di mano, con molta meno difficoltà di quanto appare. Il numero dei parlamentari, da 945 a 600, lo abbiamo ridotto a settembre, addirittura con la sanzione popolare del referendum: difficile tornare indietro. Ma due Camere, poste su un piede di parità assoluta, sono difficili da comporre e da far funzionare: e, allora, o si differenziano (ma come?) o si fondono in una sola di 600 parlamentari. Più facile la seconda soluzione, della fusione in una sola Camera, che permetterebbe anche di non drammatizzare il tema della legge elettorale: nella peggiore delle ipotesi, se proprio non si riuscisse a riscriverla, si potrebbe mantenere la vecchia, mista, adottata per la Camera dei deputati. Ma se c’è una sola Camera, la stabilità di governo è facilmente risolta con la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, cioè la possibilità di rovesciare il governo, solo proponendone uno nuovo; e, se si vuole potenziare il governo ancora di più, ben si potrebbe introdurre il potere di nomina e di revoca in capo al presidente del Consiglio (né si dica che ciò lederebbe i poteri del Presidente della Repubblica, che comunque non costituiscono principio costituzionale immodificabile: ma l’alternativa dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica innestata sulla attuale struttura è sempre praticabile, secondo quanto disse quarant’anni fa Giuliano Amato). 


E, giunti a questo punto, ben si potrebbe prevedere di istituire una Assemblea della Repubblica, integrando la commissione parlamentare per gli Affari regionali, fino ad un massimo di 88 componenti (19 Regioni più due Province autonome più Roma capitale, con altrettanti rappresentanti delle autonomie locali scelti secondo le indicazioni dell’Anci e dell’Upi, più 44 parlamentari), dotata del potere di richiedere il riesame delle leggi approvate dall’Assemblea Nazionale, prima camera di un Parlamento riorganizzato, riesame che potrebbe avvenire a maggioranza semplice, costituendo così uno strumento di riflessione, ma non di freno definitivo.
Per quanto riguarda i poteri delle Regioni e dello Stato, una riforma sarebbe auspicabile, ma dopo la recente giurisprudenza della Corte costituzionale, è sufficiente una corretta e rigorosa applicazione della Costituzione vigente.


Sembra l’uovo di Colombo, e forse lo è: ma, per andare in questo senso, occorre una assunzione definitiva di consapevolezza delle forze politiche; oppure, superata la fase acuta della crisi pandemica, ci dovrebbe mettere la sua attenzione il motore che governa imperturbabile il superamento delle difficoltà italiane.

E’ possibile che finisca così, ormai dopo le elezioni comunali che avranno una funzione di svolta, ma sarebbe l’ennesima sconfitta della politica, giacché il patto silenziosamente (e lucidamente) offerto dal governo andava proprio nel senso di lasciare ai partiti la riflessione sugli assetti istituzionali.

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