«La fabbrica del futuro avrà due soli operai: un uomo ed un cane. Il lavoro dell’uomo sarà quello di dare da mangiare al cane. Il cane servirà, invece, per controllare che l’uomo non tocchi la macchina che produrrà tutto». La tetra previsione su un futuro senza lavoro è di Warren Bennis che, dopo aver conseguito il dottorato al Mit di Boston negli anni Cinquanta, fu consigliere di quattro presidenti degli Stati Uniti.
Quella profezia sull’impatto di tecnologie che promettono (e minacciano) di svuotare gli uffici, sembra, oggi, accelerata da un’epidemia che imponendo il lavoro a distanza, ha reso possibile un enorme esperimento di cambiamento organizzativo. Ma in che misura questo nuovo mondo nel quale siamo finiti da quattordici mesi è destinato a diventare quello nel quale resteremo intrappolati per sempre?
Vanno prese con le molle le previsioni che troppo automaticamente traducono gli effetti che la tecnica rende possibile, in impatto concreto sulla vita delle persone, delle aziende, delle istituzioni. Non c’è dubbio che l’evoluzione di lungo periodo dei sistemi economici è stata quella di ridurre progressivamente la dipendenza che l’uomo ha dal lavoro.
Il tempo che dedichiamo ad attività non lavorative è enormemente cresciuto rispetto agli anni nei quali si prefiguravano lotte di classe ed è lo stesso tempo libero ad essere diventato veicolo per costruire socialità.
E invece gli effetti che Internet avrebbe dovuto avere sul lavoro non si sono, ancora, materializzati. Il tasso di occupazione è in crescita in tutti i Paesi del mondo (in Europa e persino in Italia è cresciuto di quasi dieci punti negli ultimi vent’anni); e, tuttavia, diminuisce (come racconta il grafico che accompagna questo articolo) il peso del lavoro sul Pil. Non diminuiscono le ore lavorate, insomma, ma ne diminuisce il valore e crescono le diseguaglianze: alcune prestazioni sono già automatizzabili (scompariranno le casse ai supermercati), altre lo sono di meno (è difficile immaginare un robot che faccia fisioterapia, anche se c’è, già, un’azienda francese che sta per introdurne uno nel mercato).
In questo quadro di evoluzioni potenti e contraddittorie è, all’improvviso, arrivato il Covid-19 che sta, probabilmente, cambiando tutto. L’effetto – drammatico all’inizio quando la pandemia ha causato una distruzione di posti di lavoro quattordici volte maggiore della crisi finanziaria del 2008 – si è, nel tempo, manifestato attraverso il lavoro a distanza (“remote working” che per qualche motivo in Italia chiamiamo invece “smart”).
Nel settembre dello scorso anno, il 60% dei lavoratori britannici e il 35% di quelli italiani raggiungevano l’ufficio non più di due giorni a settimana. Ancora più interessante il dato della Nuova Zelanda dove, a pandemia domata, il 27% del lavoro continua ad essere svolto da casa. L’effetto di questa “sospensione” è però di tipo cognitivo: lavoratori, manager, studenti, medici, pazienti, insegnanti hanno vissuto un esperimento su grande scala e capito che certe trasformazioni sono possibili. Con tre implicazioni con le quali dovremo fare presto i conti.
La prima ha a che fare con la natura stessa delle organizzazioni. Un’impresa o un’amministrazione che continuasse ad avere la metà delle persone che lavorano in remoto, deve cambiare gli strumenti con i quali misurare le prestazioni e comunicare obiettivi, perché non potrà più contare sull’osmosi che si crea attorno ad una macchinetta del caffè guardandosi negli occhi.
Il secondo effetto è sulle tecnologie stesse. Abbiamo affrontato la pandemia usando piattaforme fornite da pochissime aziende (Zoom, Microsoft) adattandole a tipologie di incontri e di utenti completamente diversi. Ciò sta producendo un allargamento di divari e sono anziani e bambini che hanno pagato il prezzo dell’esclusione. Esiste una prateria di possibili innovazioni alle quali un’offerta pensata totalmente per gli adolescenti non ha, ancora, risposto e grandi sono le opportunità che avremmo se, con umiltà e pragmatismo, usassimo la missione digitale della Recovery Facility per cogliere questa occasione.
Il terzo più devastante impatto è di ordine politico. La pandemia ha avuto l’effetto di rendere la vita parzialmente migliore per chi ha un lavoro che può essere svolto a distanza e ciò è vero soprattutto quando quella occupazione ha forti contenuti intellettuali; e peggiore per chi, invece, svolgeva lavori che i governi hanno definito “essenziali” (ad esempio, nella logistica degli alimentari e della consegna a domicilio, ma gli esempi sono molteplici).
Il punto è che se un lavoratore davvero indispensabile si ritrova dalla parte sbagliata di una diseguaglianza crescente, potremmo ritrovarci presto in una condizione simile a quella che descriveva Marx osservando la vita nelle fabbriche (prevedendo che fossero - in tempi non lunghi – sostituite da un’intelligenza artificiale che chiamava “automa”) con tutte le conseguenze del caso sulla coesione sociale.
E tuttavia, la proposta di rendere disponibile a tutti una rete di sicurezza che sia pagata proprio dai robot (ne parlò qualche tempo fa Bill Gates) sembra oggi la provocazione visionaria sulla quale avviare la costruzione di un welfare più adatto a questi tempi.
Naturalmente per arrivare a tanto sono necessarie ingenti risorse e soprattutto un progressivo cambio culturale che per il momento si intravede solo marginalmente. Ciò consentirebbe, quantomeno, di salvare la coesione da processi “violenti” - lo smart working è un esempio - che stanno scavando gallerie sotto i piedi delle nostre certezze fragili.
In linea teorica, anche la più avveniristica delle suggestioni può trovare realizzazione; ma certi processi hanno bisogno di molto tempo e nuove regole prima di essere calati stabilmente nel contesto sociale: un errore temporale potrebbe procurare danni molto seri al sistema. E costosi.
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