Giuseppe Maria Berruti

L'analisi/ Quei reati minorili commessi da chi non capisce

di Giuseppe Maria Berruti
3 Minuti di Lettura
Domenica 10 Settembre 2023, 00:12

La cosiddetta questione Caivano sta dando luogo ad una pericolosa confusione di idee. Si rivendica il diritto alla sicurezza attraverso un inasprimento delle pene nei confronti dei minori. Quindi il cambiamento del concetto stesso di punibilità, che oggi non consente di applicare a soggetti ritenuti privi della capacità di discernere l’illecito penale, le stesse pene che si infliggono ai maggiorenni. 

Appartiene alla civiltà giuridica la convinzione secondo la quale la punizione viene inflitta al soggetto capace di intenderne le ragioni per le quali deve subirla. Il ragazzino da educare, anzi travolto dalla assoluta mancanza di regole, non è ritenuto capace di intendere le ragioni della sofferenza che gli viene praticata con la pena. Perciò le pene, nel caso dei minori, sono comunque tendenti a fornirgli, per il tempo necessario, la educazione che non ha ricevuto.

È chiaro che questo sistema civilissimo accettato da tutti i paesi dotati di sufficiente consapevolezza giuridica, è difficile da mantenere quando una serie enorme di fattori della più varia natura, economici, geografici, e comunque storici, in realtà ci mettono di fronte a ragazzini pericolosissimi per la loro insipienza. In questi giorni si sente di tutto. Puniamo i quattordicenni che sparano come i cinquantenni, come si punisce il cinquantenne. Ma la difficoltà è proprio questa. Mantenere un livello di civiltà che garantisca alla sanzione penale inflitta, la sua funzione storica, che è quella di essere l’ultima barriera alla quale gli ordinamenti si rivolgono per contrastare i comportamenti che vietano.

Ultima barriera, perché le barriere che debbono precederla, l’educazione, l’esempio, la riprovazione sociale, la morale civile, ed il sistema delle morali culturali tra cui quelle religiose, hanno fallito. Quando appunto tutte queste barriere sono state saltate allora non vi è altro da fare che punire.

Una vera e propria finzione giuridica, che individua nel delitto la prova dell’avvenuto fallimento delle precedenti barriere. In realtà noi ci troviamo di fronte a ragazzi ai quali non è stata mai data alcuna scuola, non solo quella delle aule, ma quella realizzata dalla socialità che plasma. Siamo di fronte a giovanissimi la cui vita è intrisa di violenza, di sopraffazione, di confronto personale offensivo. La cui pericolosità deriva da contatto con altri. Il paradosso è questo. È la socialità che li rende pericolosi. Perché dentro il meccanismo sociale possono esprimere il loro bisogno di prevalenza, che diventa sopraffazione. Si deve tener conto della antichità di questa difficoltà. Il rapporto tra sanzione giudiziaria punitiva e l’antecedente sociologico dell’individuo è antico quanto il diritto. Nel nostro Paese esso è drammaticamente vecchio. Perciò chi governa oggi si trova addosso colpe non proprie. Figlie del tirare a campare. Occorre comprendere che se il tema è certamente da porsi in termini di educazione e di accompagnamento della crescita, esso richiede tempo e si confronta con le immediatezze della povertà e della diseguaglianza. Realtà che si scarica sulle mamme e sui bambini che non riescono a diventare adulti. Non ho ricette. Ritengo si debba intervenire, dando per scontate le ragioni del disagio, ma ponendo in campo anche tecniche repressive di natura preventiva che consentono alle forze di polizia di controllare ed impedire. Ma avrei paura a rendere più severe le norme che regolano la differenza tra l’adulto ed il minore. Avrei paura a dichiarare che la punizione penale può essere utilizzata come barriera preventiva. Perché si dovrebbe punire chi non capisce.

© RIPRODUZIONE RISERVATA