Alessandro Campi
Alessandro Campi

Presidenzialismo/ Il percorso in salita per le riforme condivise

di Alessandro Campi
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Lunedì 8 Maggio 2023, 00:00

Si riapre dunque il cantiere delle riforme istituzionali. Tante volte aperto nel recente passato italiano e altrettante volte frettolosamente (e malamente) chiuso, senza che si siano prodotti cambiamenti reali nelle istituzioni della Repubblica. 
E quel poco che nel frattempo è cambiato – pensiamo alla riduzione del numero dei parlamentari – non ha obbedito a criteri razionali, ma all’emotività collettiva nel segno dell’antipolitica. Una classe parlamentare che decide sotto la pressione della piazza o per spirito di auto-sopravvivenza, decide sempre male.
Il presidenzialismo, inteso genericamente come rafforzamento del potere esecutivo e della volontà popolare, era nel programma elettorale del centrodestra e in particolare di Fratelli d’Italia. Non può dunque essere considerato un diversivo propagandistico o una forzatura contingente. Giusto inoltre che se ne cominci a parlare ora: le riforme, che se pensate seriamente richiedono tempo, si impostano ad inizio legislatura con l’obiettivo di realizzarle prima che essa si avvii alla conclusione naturale, quando già si pensa alle prossime elezioni.
Detto questo, il cammino, anche stavolta, soprattutto stavolta, si annuncia tutto in salita, sebbene non per forza destinato all’ennesimo scacco. Basta partire bene, innanzitutto sul piano del metodo. 

Su temi così delicati, la maggioranza di governo può proporre senza disporre: serve condivisione, non un braccio di ferro parlamentare. Bene dunque ha fatto Giorgia Meloni a rivolgersi alle opposizioni per un primo confronto, propedeutico ad un lavoro progettuale comune: bicamerale, comitato dei saggi, la formula si vedrà. 
Un invito a cambiare insieme quel che è di tutti, con il più largo consenso possibile, ma anche un modo per smascherare eventuali opposizioni pregiudiziali.
In Italia, lo sappiamo per esperienza, su ogni ipotesi di riforma è sempre prevalso il conservatorismo istituzionale, spesso nascosto dietro la retorica secondo la quale la Carta “più bella del mondo” per definizione non si può cambiare.

Con l’aggiunta velenosa che, se proprio si deve farlo, gli unici abilitati sono gli eredi del patto costituzionale che l’ha fatta nascere appena finita la guerra. Ma parliamo di partiti e forze nel frattempo estinti, ovvero confluiti per frammenti nel grande contenitore del Pd, che di quella Costituzione tende dunque a considerarsi il custode politico-morale, nonché l’unico che possa eventualmente innovarla senza tradirla. 
Tutti gli altri, che per ragioni storiche non affondano radici nell’antifascismo resistenziale, sono guardati con sospetto essendo dei potenziali usurpatori.
Esistono in questo Paese, sappiamo anche questo, schiere di opinionisti e di costituzionalisti più o meno organici ai partiti in senso lato di sinistra che non aspettano altro che di lanciarsi nelle solite campagne allarmistiche contro il rischio di una deriva autoritaria. Campagne periodiche a difesa della democrazia dei partiti il cui esito, col senno di poi, è stato largamente paradossale: nel senso che per evitare il pericolo dell’uomo (o della donna) forte eletto a furor di popolo, a Palazzo Chigi sono arrivati a ripetizione “salvatori della Patria” scelti secondo criteri commissariali e tecnocratici.
Insomma, per salvare le istituzioni dai barbari che volevano snaturarle, si è preferito che ad occuparsene, a fronte del loro palese malfunzionamento, fossero personalità estranee alla lotta politica e alla dialettica tra partiti.
Il metodo, dunque: coinvolgere, proporre un dialogo aperto, costringere ogni singolo partito - quelli di opposizione in primis - ad esporsi sul tema delle riforme, per capire, come detto, chi bleffa e chi fa sul serio, chi ha idee da mettere sul tavolo e chi, per principio, vuole soltanto mettere i bastoni tra le ruote.

Ma poi ci vogliono i contenuti. Il premierato non è, per cominciare, il presidenzialismo. E l’uno e l’altro, per come se ne parla, sono ancora al livello di pure ipotesi o suggestioni.
La prima formula non ha molti esempi nel mondo (il che è già di per sé un problema) e non è detto che per realizzarsi abbia necessariamente bisogno di una legittimazione popolare diretta.

Al premier forte, non ostaggio della coalizione che lo sostiene, si può arrivare, come ben sanno i costituzionalisti, anche con altri strumenti: modifica dei regolamenti parlamentari, sfiducia costruttiva, legge elettorale maggioritaria, fiducia a Camere congiunte, ecc. E’ una strada possibile, quella del premierato, ma va scelta con cognizione.

La seconda formula, quella in senso proprio presidenzialista, proprio perché ancor più radicalmente innovativa rispetto all’attuale assetto istituzionale, andrebbe anch’essa dettagliata nel modo più rigoroso ed organico. 
Per capire come si articolerebbero in quel caso gli equilibri tra i poteri; a chi spetterebbero i ruoli di garanzia e di potere neutrale oggi svolti dal Quirinale; come si incastrerebbe il Presidente eletto dal popolo con la prospettiva cosiddetta del “regionalismo differenziato”; a che tipo di legge elettorale eventualmente si appoggerebbe la nuova impalcatura costituzionale.
Senza una proposta chiara e tecnicamente ben congegnata, la rissa tra partiti è garantita, così come il fallimento anche del percorso riformistico appena annunciato. 

Ergo, ci vuole un lavoro preparatorio serio di almeno un anno, che veda protagonisti - accanto ai politici - ingegneri delle istituzioni, scienziati della politica e dell’amministrazione, costituzionalisti ed esperti di leggi elettorali, scelti ovviamente tra quelli non ostili all’idea stessa di un processo di cambiamento costituzionale stimolato per di più da una maggioranza politica di centrodestra.
Ciò detto, un piccolo rischio - estraneo all’eventuale contenuto della riforma - va segnalato in questa legislatura: la congestione parlamentare. Con molte energie, tra Parlamento e tecno-strutture ministeriali, impegnate nella implementazione-realizzazione del Pnrr, aprire troppi cantieri, su temi tanto diversi (mettiamoci anche il fisco e la giustizia), potrebbe rappresentare un problema.
Volendo fare troppo si rischia di fare poco, o male. Ma si tratta di una preoccupazione ragionevole da tenere a mente, non di un motivo per fermarsi prima ancora di essere partiti.

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