Alessandro Campi
Alessandro Campi

Premier in campo/ Il voto per il Colle e lo stallo dei partiti

di Alessandro Campi
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Venerdì 24 Dicembre 2021, 00:03

La pandemia continua a tenere prigioniero il mondo. E non sappiamo quando finirà. Ma l’Italia è l’unica, tra le grandi democrazie, che per affrontarla ha scelto d’imboccare dopo non pochi tormenti la strada dell’unità nazionale, dando vita ad un governo d’emergenza a guida tecnica sostenuto in Parlamento da praticamente tutti i partiti. In Italia s’è dunque sostanzialmente abolita, o comunque fortemente compressa, la normale dialettica tra maggioranza e opposizione. Altrove non è stato così: si vota, cambia il colore dei governi, ruotano le massime cariche dello Stato, si mantengono le distinzioni ideologiche tra partiti, insomma prosegue la lotta politica nelle sue forme tradizionali, senza che per questo sia venuto meno lo spirito di coesione interna richiesto ad ogni comunità nazionale nei momenti di pericolo. Siamo una luminosa avanguardia, il cui esempio sarà prima o poi seguito da altri, o una disperante eccezione?

Da qui, da questa unicità che suona in effetti come un’anomalia, bisogna partire per comprendere il perché la nostra vita politica si stia facendo sempre più contorta e ingarbugliata quanto più s’avvicina l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Una scadenza in sé sempre delicata, ma che in questa particolare congiuntura storica ha finito per assumere un sapore quasi drammatico.Come se l’Italia, non facendo la scelta giusta che nessuno peraltro sa quale possa essere, rischiasse definitivamente il baratro. Sono cose che purtroppo capitano quando un intero sistema istituzionale smette di funzionare secondo le sue regole interne – quel parlamentarismo razionalizzato fondato sulla democrazia dei partiti per difendere il quale contro ogni possibile, e spesso solo immaginaria, deriva autocratica si sono immolate almeno due generazioni di costituzionalisti e di intellettuali democratici, mai silenti come oggi – e finisce improvvisamente per dipendere, nel suo buon andamento, dalle capacità e dalla volontà d’una persona sola, con tutti gli altri attori pubblici nel ruolo di mere comparse nemmeno troppo apprezzate dal pubblico-elettore.

Abbiamo chiamato Mario Draghi a Palazzo Chigi nelle vesti, di per sé sempre esagerate, di salvatore della patria. Nello stesso ruolo alcuni vorrebbero mandarlo, dopo appena un anno, al Quirinale. Questione, si è detto e si dice, di credibilità internazionale, che nessun altro potrebbe garantire. Ma davvero siamo messi così male dopo settant’anni di Repubblica? E si può caricare tanta responsabilità sulle spalle d’un singolo come se dietro di lui non ci fosse che il vuoto?

L’errore, che l’Italia ha fatto più volte nella sua storia sempre pentendosene, consiste probabilmente nel pensare che basti affidarsi a un redentore estraneo al circo politicante per sollevare le sorti di una collettività in crisi. Col rischio peraltro che il demiurgo tanto invocato si trasformi alla prima difficoltà in un comodo capro espiatorio. Beninteso, non è colpa di Draghi se siamo in questa situazione, ma di un Paese che dell’emergenza ha fatto una regola, trasformando l’eccezionalismo in un modus operandi ordinario. Dopo quasi trent’anni di strappi, forzature e scorciatoie, di chiamate politiche salvifiche iniziate con Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 e proseguite in forme diverse con Dini, Amato, Monti, Letta, Conte e ora Draghi (ma anche Berlusconi e Prodi sono stati in fondo presunti salvatori dell’Italia estranei alla politica tradizionale), giustificate come risolutive d’una situazione di crisi dalla quale in realtà non siamo mai usciti, non c’è da sorprendersi se il nostro sistema istituzionale e coloro che agiscono al suo interno nei diversi ruoli siano sul punto d’impallarsi. I partiti hanno fallito e hanno mille colpe, d’accordo, ma l’alternativa tecnico-commissariale non ha funzionato granché e oggi ne vediamo le conseguenze.

Non si sa in effetti che strada imboccare quando manca un mese al voto parlamentare sul prossimo Presidente: ogni soluzione presenta altrettante controindicazioni. Draghi al Quirinale sembrerebbe una soluzione lineare e persino scontata (nonché molto gradita ad un pezzo importante d’opinione pubblica). Non è forse il migliore di tutti, l’uomo delle soluzioni impossibili? Ma appunto per questo chi altri, se lui dovesse lasciare l’incarico, potrebbe garantire l’unità e continuità dell’attuale stramba maggioranza, una volta chiarito che dal Colle non si può governare per interposta persona? 

Siamo poi sicuri che il grosso del lavoro per cui lo abbiamo chiamato come capo del governo – le riforme strutturali, il Pnrr, quella cosetta banale che si chiama il rilancio di un Paese fermo da decenni e indebitato sino al collo – sia stato talmente ben fatto che chiunque, nel prossimo futuro, potrà proseguire la sua opera senza troppi patemi? Bastava dunque così poco – nove mesi di guida con polso fermo – per rimettere in ordine le cose e recuperare ritardi decennali?

Dovunque vada Draghi, dicono altri e dice lui stesso, la legislatura deve in ogni caso arrivare alla fine: conviene ai parlamentari per i motivi economici che sappiamo, ma serve soprattutto agli italiani visti i mesi difficili che ci aspettano.

Già, ma prima o poi si dovrà pur votare (primavera del 2023) ed è dura immaginare che tipo di campagna elettorale potranno fare, per distinguersi tra di loro a beneficio dei potenziali elettori, i partiti che attualmente sostengono in massa il governo. Si accuseranno l’un l’altro per responsabilità, decisioni e scelte che hanno condiviso sino al giorno prima? L’unità nazionale è una risorsa retorica preziosa, ma per i partiti che l’hanno sposata come una formula di governo si sta rivelando sempre più uno svantaggio. Le maggioranze parlamentari troppo vaste, quando diventano ammucchiate senza significato politico, finiscono per premiare chi ne resta fuori. Sarà per questo che la Meloni è così di buonumore, mentre tutti gli altri sudano freddo pensando al voto.

D’altro canto, proprio perché stiamo parlando di Draghi, si può anche solo immaginare una sua elezione come Capo dello Stato men che unanime e, come si dice, al primo colpo? Se ciò non accadesse, sarebbe un grave colpo d’immagine all’Italia prima che alla sua persona (ma se al primo colpo si eleggesse un altro?). Così come l’idea che i partiti, fatti tutti i loro giochini senza costrutto, dopo lunghe votazioni inconcludenti, si riducano a doverlo richiamare in campo per disperazione. A quel punto potrebbero ancora contare sul suo spirito di servizio o dovrebbero fare i conti col suo orgoglio ferito, con gli effetti negativi sul governo che è facile immaginare in un simile scenario?

Mettiamo invece che intorno al suo nome si realizzi una vasta e rapida convergenza. Ma quale ruolo immagina per lui chi lo vorrebbe Presidente per acclamazione? Di garante di tutti, di arbitro neutrale, perché questo dice la Carta senza equivoci. Ma è un’ipocrisia. Se si manda al Colle una simile personalità è perché si ritiene che da quella posizione debba svolgere per gli anni a venire un ruolo politicamente dirimente e strategico, stante un sistema dei partiti giudicato ancora troppo fragile, frammentato e progettualmente vacuo. Sarebbe quel semi-presidenzialismo de facto che il ministro Giorgetti ha avuto, se non altro, la sincerità di invocare come lo sbocco a questo punto inevitabile – stante anche la pandemia – dell’infinita crisi italiana. L’estensione dei poteri presidenziali, nella scelta del Presidente del Consiglio come anche della maggioranza parlamentare che deve sostenerlo, non è forse un dato politico ormai acquisito, come si è visto con l’esperienza di Napolitano e Mattarella? Draghi, nel caso, non farebbe che proseguire e confermare questa tendenza. Ma se questa è la “costituzione materiale” ormai vigente ci si chiede se non convenga uniformarvi al più presto quella formale prima che tutto si sfasci. 

Dunque, Draghi sì, Draghi no, Draghi forse. Chiamato a gran voce per uscire da una condizione d’impasse, è diventato lui stesso – senza alcuna colpa personale, per ragioni diciamo così sistemiche – la causa e l’oggetto d’uno stallo complicato da risolvere. Personalità neutrale e al di sopra delle parti, è finito com’era inevitabile nei conflitti tra le fazioni e tribù che tradizionalmente popolano la giungla politica italiana. D’altro canto, se lui ha ambizioni legittime, altrettante legittime sono le attese dei partiti e delle coalizioni che siedono in parlamento: un nome alternativo a Draghi ci deve pur essere (anzi, ci sarà per forza) nel caso il suo non risulti per qualunque ragione percorribile. 

Non sarà comunque facile uscire da questa situazione, dove se uno vince gli altri rischiano di perdere malamente (e viceversa). Dipende da quanto senso pratico-politico ancora alberga nelle pieghe di un sistema dei partiti largamente in rovina ma che rimane pur sempre il cuore di questa come di ogni altra democrazia. Chissà, la soluzione potrebbe trovarla ancora una volta il solito Renzi, che di tattiche parlamentari se ne intende e di senso politico ne ha da vendere.

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