Romano Prodi
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Politica immobile/ La piaga della povertà dilatata dal virus

di Romano Prodi
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Domenica 16 Gennaio 2022, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:19

Credo che, nel secolo in cui stiamo vivendo, l’obiettivo più proclamato e condiviso da tutti i programmi politici sia la lotta alla disuguaglianza. La condivisione di quest’obiettivo trae origine dalle statistiche che mostrano un aumento delle diseguaglianze in quasi tutto il mondo, dai Paesi democratici, a quelli autoritari fino a quelli che ancora possiamo chiamare comunisti.

Non stavano così le cose fino agli anni ottanta, periodo in cui lo sviluppo economico si accompagnava ad un certo equilibrio di forze fra datori di lavoro e sindacati, in cui la finanza internazionale non aveva ancora potere dominante e in cui erano ancora importanti le mediazioni portate avanti dai grandi partiti tradizionali. Non che prevalesse la giustizia sociale, ma qualche piccolo passo verso una più equa distribuzione del reddito e della ricchezza era stato compiuto. 

A partire dagli anni Ottanta il cammino si inverte e le differenze aumentano ovunque, così come si moltiplicano gli appelli e i programmi per porre fine al crescente divario. 

Nella consapevolezza che questo degrado non possa proseguire all’infinito, si è dato vita a un poderoso numero di analisi e ricerche volte a spiegare le origini, le cause e i possibili rimedi per fare fronte al problema delle crescenti disparità. 

Tutte queste riflessioni hanno prodotto una copiosa messe di proposte volte ad ipotizzare la nascita di nuove forme di socialismo non statale ma partecipativo, comunitario, decentrato e volto soprattutto a mettere in rilievo l’importanza dei beni comuni.

Non ci dobbiamo stupire che, di fronte ad un mondo in cui, nonostante tutto, la crescita economica è continuata coinvolgendo un sempre più elevato numero di persone, queste proposte un po’ rivoluzionarie, abbiano creato una diffusa paura e non abbiano avuto alcuna adesione popolare, rimanendo quindi confinate in un campo ristretto, poco più che accademico. 

Desta invece una certa sorpresa vedere come siano state rifiutate dall’opinione pubblica, e siano state perciò considerate inattuabili, anche quelle misure di limitato riformismo che avevano reso possibile una pur modesta diminuzione delle disuguaglianze nei trent’anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale.

Prendiamo come base di ragionamento il problema fiscale, che era stato lo strumento principe per il precedente sforzo di miglioramento redistributivo. Mi riferisco soprattutto alla progressività delle imposte, alla tassa di successione e alle imposte sul patrimonio.

Da quarant’anni qualsiasi politico affronti questi problemi è destinato a perdere le elezioni. Così avviene non soltanto quando il peso fiscale aggiuntivo ricade su una diffusa platea di elettori, ma anche quando è a vantaggio della grande maggioranza dei cittadini e grava solo su una fascia molto limitata di un’élite che gode di redditi estremamente elevati. 

Limitando per un attimo l’analisi al nostro Paese, riflettiamo sulla generale opposizione alla proposta di modificare l’imposta di successione, che pure ne prevedeva un aumento modesto e limitato ad un livello di ricchezza molto più elevato rispetto a quello adottato nella maggioranza dei Paesi capitalisti.

Allo stesso modo, mi ha sorpreso come, nell’ambito della politica volta ad alleviare le conseguenze del Covid, sia stata bloccata l’ipotesi di ritardare l’applicazione di pur modesti benefici fiscali a favore delle categorie più abbienti, in modo da potere aumentare i contributi a favore dei più poveri. Così come, a livello internazionale, risulta incredibilmente debole la battaglia dei Paesi democratici contro i paradisi fiscali, che pure danneggiano tutti i cittadini e tanto aumentano lo scetticismo nei confronti delle istituzioni. Naturalmente non esiste solo il mutamento di sensibilità nei confronti del fisco: è ancora più impressionante l’indifferenza con cui si assiste all’allargamento dei divari salariali a livello dell’intero Paese, della Pubblica Amministrazione o della singola impresa.

Quando, quarant’anni fa, scrissi un articolo in cui sostenevo che la differenza salariale di trenta a uno fra la base e i vertici di una stessa impresa mi sembrava eccessiva, ricevetti valanghe di lettere di approvazione. Oggi le differenze fra trecento e uno sono invece ritenute un fatto assolutamente normale. Non si calpesta certo il merito se la differenza di salario fra i massimi vertici delle grandi imprese, o delle strutture bancarie e finanziarie, e i loro dipendenti viene contenuto nei limiti nei quali un normale cittadino riesce a fare i conti.

L’opposizione, o almeno la distrazione, dei partiti politici di fronte all’applicazione di pur elementari strumenti distributivi non deriva dalla follia di alcuni leader politici, ma dal fatto che, in conseguenza di decenni di pensiero unico contro ogni intervento pubblico, le decisioni sono sempre più nelle mani del sistema economico e il mondo politico le assume come qualcosa che viene dall’alto ed è quindi ritenuto inevitabile. 

Nemmeno il Covid ha fatto prendere coscienza di questa realtà. Certo la pandemia ha reso almeno tutti consapevoli che, nel lungo periodo, l’aumento delle spese destinate all’istruzione e alla sanità sono uno strumento formidabile per diminuire le disuguaglianze ma, nello stesso tempo, rimane ben salda la convinzione che ben poco può essere fatto per accumulare le risorse necessarie per fare fronte a questo condiviso compito. 

Le cose intanto vanno avanti, forse peggio di prima. Coloro che si dedicano a provvedere alle risorse essenziali, come il cibo o l’alloggio per chi è colpito dalle conseguenze del Covid, sono infatti concordi nel constatare che il numero degli estremamente poveri, dopo essere enormemente cresciuto durante la crisi, non accenna a diminuire nemmeno dopo mesi di ripresa. 

Forse l’amara conclusione è che, anche in un mondo che si definisce cristiano, il versetto che più sembra interessare nel Vangelo è quello che dice: “I poveri li avrete sempre con voi”. Non occorre ricordare che queste parole non volevano certo dettare le regole per la distribuzione della ricchezza. 
 

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