Alessandro Campi
Alessandro Campi

I partiti del 20%/ Il balletto dei sondaggi che non hanno un vincitore

di Alessandro Campi
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Venerdì 18 Giugno 2021, 00:26 - Ultimo aggiornamento: 00:27

Fratelli d’Italia sale, la Lega scende. Il Pd guadagna, il M5S perde. Quello oggi ha lo 0,5% in più, quell’altro lo 0,3 in meno. La Meloni che sorpassa Salvini. Letta che sorpassa anche lui Salvini. Salvini che forse è sempre primo. Conte che, non essendo ancora a capo di nulla, non riesce a sorpassare nessuno.


Ma è giusto leggere in questo modo, come se fosse una corsa campestre ad ostacoli, i sondaggi (peraltro tutti abbastanza concordi quanto ai risultati) che circolano da alcune settimane e che tutti, in privato o in pubblico, ci divertiamo a commentare?
Dal punto di vista mediatico, personalizzare lo scontro e trasformarlo in una specie di duello all’ultimo sangue certamente funziona. Ma prendiamo il caso del centrodestra. Con tutto quello che in passato si sono detti Berlusconi, Fini e Bossi – salvo poi ritrovare quasi sempre un accordo al momento delle elezioni – perché dovremmo oggi considerare una resa dei conti destinata a far implodere il centrodestra la competizione tra la Meloni e Salvini? Attenti, come sempre, a confondere le proprie speranze con le ragionevoli previsioni che l’attualità e la storia ci suggeriscono. 


Sinora questa competizione ha tutt’altro che indebolito il centrodestra, semmai lo ha rafforzato (nei numeri, se non politicamente), ivi compresa la diversa scelta che i due partiti hanno fatto rispetto al governo Draghi.
Uno lo sostiene in Parlamento, l’altro ha scelto la strada dell’opposizione patriottica. Contraddizione mortale? Sembra piuttosto una perfetta divisione dei compiti.
Ma torniamo ai sondaggi. Cosa ci dicono tenuto conto delle fisiologiche oscillazioni congiunturali e andando oltre il gioco dei leader che si sorpassano a vicenda a giorni alterni? Abbiamo attualmente i primi quattro partiti italiani – Lega, Fratelli d’Italia, Partito democratico, M5S (se si preferisce s’inverta l’ordine dei primi tre) – che, pur tra alti e bassi, veleggiano intorno al 20% del consenso dei votanti. Un po’ meno i grillini, ma quando la leadership di Conte sarà finalmente definita potrebbero guadagnare qualcosa rispetto ad oggi. In ogni caso anche con il loro 16-17% attuale il ragionamento non cambia. 


In questo momento, nessun partito italiano si avvicina anche solo lontanamente alla soglia del 30%, grazie alla quale si potrebbe aspirare ad un ruolo minimamente direttivo, influente o condizionante rispetto agli avversari, ma anche rispetto ai propri – potenziali o reali – alleati. 
Abbiamo insomma quattro minoranze relative che oggi si fronteggiano praticamente alla pari, se si considera il cosiddetto errore statistico. Per capire la differenza, negli altri Paesi europei – Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna, Austria – i rispettivi partiti maggiori (il Rassemblement national di Marine Le Pen, il Partido popular di Pablo Casado, la Cdu/Csu ormai orfana della Merkel, i Conservatori di Johnson, i Popolari di Kurz: a proposito, sono tutti partiti di destra o centrodestra) viaggiano nelle rilevazioni di voto – guardando alla media dei sondaggi degli ultimi sei mesi – sempre intorno al 30%, quando non abbondantemente oltre (i Tories sono al 44% ma in questo caso bisogna tenere conto dell’eccezione rappresentata dal bipartitismo inglese).


Mentre il secondo partito di ognuna delle nazioni citate – ancora una volta escludendo i laburisti inglesi, che sono al 34% – veleggia intorno al 25%, con tutte le altre formazioni spesso distaccate di almeno 10 punti (Fonte: Politico.eu – Poll of Polls).
In Italia, c’è poi un restante 20% dei votanti che si distribuisce tra una miriade di partiti minori: Forza Italia (il più forte dei più deboli), Azione, Italia Viva, Sinistra, Verdi, + Europa.

Oltre al solito convitato di pietra: gli indecisi-astenuti, quelli che dichiarano di non votare o di non sapere ancora per chi votare. Sono il (non)partito più grande: vale intorno al 30-35%, secondo le rilevazioni. Sono gli italiani che nessuno sa come riportare verso l’impegno politico e che al momento opportuno, se decidessero di rientrare in partita, potrebbero anche fare la differenza. Ma perché ciò accada dovrebbe drasticamente cambiare l’attuale offerta politica: cosa di cui al momento non si vede traccia, nonostante alcuni goffi tentativi in corso (tipo la proposta berlusconiana di un partito unico del centrodestra).


L’Italia ha dunque un sistema partitico non solo frammentato, composto da attori che faticano a riprendersi il ruolo d’indirizzo politico che in democrazia spetta per definizione ai partiti (diversamente non sarebbe arrivato Draghi in veste di commissario straordinario), ma sostanzialmente in una condizione di impasse. 
Quattro debolezze equivalenti non fanno infatti una forza, anche ai fini di eventuali – anzi, visti i numeri, necessarie – alleanze. Le quali però funzionano, come ci dicono l’esperienza storica e il buon senso politico, solo quando sono asimmetriche, quando cioè c’è un egemone che comanda e detta le regole: quelle tra pari creano invece sempre problemi e attriti interni, legati a chi debba guidarle. 
Nel 2018, quando il voto politico di marzo fece registrare il boom del M5S (primo partito d’Italia col 32,7%) si disse che eravamo entrati, dopo la stagione del bipolarismo (prima frammentato, poi limitato) tra centrodestra (Pdl) e centrosinistra (Pd), in un sistema tripolare, caratterizzato peraltro da un’altissima volatilità elettorale (come avrebbero confermato le Europee del maggio 2019 con la travolgente crescita della Lega e come dimostrano i sondaggi odierni con la crescita continua di Fratelli d’Italia). 


Ma oggi? Abbiamo, come detto, quattro partiti statisticamente allineati sulla soglia del 20%, potenzialmente ascrivibili a due schieramenti-coalizioni tra di loro alternativi, all’interno dei quali non esiste però alcun polo o partito rilevante che possa fare da traino agli altri (come quando nella Francia degli anni Settanta e Ottanta si parlava di “quadriglia bipolare” proprio per indicare l’esistenza a destra e sinistra di un partito medio-grande capace di trascinare quelli medio-piccoli suoi alleati). 


Siamo dunque in un blocco di sistema – partiti deboli sul lato progettuale, con una forza elettorale equivalente, costretti a stipulare tra loro alleanze potenzialmente fragili – per uscire dal quale sarebbe necessario mettere mano, se non ad un disegno organico di riforme istituzionali, impossibile in questa congiuntura, almeno ad una nuova legge elettorale che spinga i partiti verso aggregazioni di stampo maggioritario. Esattamente quello che – ahinoi – non si farà.

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