Mario Ajello
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La politica dell'io/ Se la logica del “like” prevale sul merito

di Mario Ajello
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Giovedì 18 Agosto 2022, 00:09

Mi è simpatico, lo voto. Mi è antipatico, non lo voto. Ecco la conseguenza, la scelta più di pancia che di testa, della personalizzazione estrema e ormai parossistica della politica. Quella per cui un simbolo elettorale corrisponde a una persona, e un partito, un partitello o un partitone coincide con il nome del leader o del liderino che ha imposto il suo nome in un logo che non rappresenta un progetto ma una proiezione del sé. Vi piaccio? Mettete il like. Non vi piaccio? Peggio per voi. 
La riprova di questa tendenza politica, o meglio di questa scorciatoia, sta nel fatto che su 101 simboli elettorali addirittura 26 sono all’insegna di chi ha voluto quella lista, l’ha composta e ci ha messo la firma. Anche quando il proprio nome non è nel simbolo, di fatto c’è. Come nel caso di M5S - con Conte che fino alla fine ha voluto inserire il proprio cognome nell’emblema elettorale e Grillo glielo ha impedito non riuscendo però ad evitare la lista fosse esclusivamente di pertinenza del rivale, alla faccia delle “parlamentarie” - e come nel caso del Pd. Con Letta che, utilizzando la formula del «partito-comunità», ha agito invece come un leader personalistico mosso, com’è naturale in una politica così auto-riferita, da inclinazioni individuali e da presunti «rancori personali» che gli vengono rimproverati non solo riguardo alla cancellazione dalle liste degli esponenti della corrente Base Riformista ma prima ancora dalla rocciosa indisponibilità ad accogliere nell’alleanza Renzi, mentre ha spalancato le porte e i collegi sicuri a Fratoianni e a Bonelli che portano più danno che giovamento al profilo da sinistra moderna che il Nazareno dice di volersi dare.
Se la logica del like prevale sul riconoscimento ponderato della competenza del leader e sulla fiducia nel programma che quel leader incarna, la conseguenza è una sconfitta della politica del merito, del discernimento tra i diversi contenuti in campo (ammesso che i contenuti ci siano o non siano rifritture fuori tempo massimo), dell’attenta analisi che dovrebbe essere necessaria delle squadre impegnate nelle rispettive proposte. E la neo-politica, se questa è, finisce per affondare nella fascinazione quasi religiosa, non laica e non basata sull’attenta valutazione delle cose senza pregiudizi e superstizioni, su un personaggio o un su un altro. Trattato alla maniera di un vip o di un influencer. 
Personalismo - anzi chiamiamolo micro-personalismo perché in imponenti figure del passato come Churchill si confondevano la persona e il ruolo ma si esaltavano a vicenda in una grande storia - significa ridurre la politica a scontro tra comitati elettorali, il mio contro il tuo, a dispetto dell’interesse generale. Che è dato dall’impasto di tante istanze diverse rappresentative della complessità sociale, di tante competenze e professionalità non direttamente riferite all’obbedienza al capo, di tante autonomie di giudizio che dovrebbero essere utili non a compilare il programma più semplice e più vendibile, ma a formare quello più serio e più spendibile per un Paese bisognoso di verità e di crescita e quello più dotato di reale incisività (anche a costo di una dose di impopolarità) e di coraggio riformista senza alcuna concessione al narcisismo, alla demagogia e al mainstream di cui troppi sembrano prigionieri. 
Non è affatto sbagliata in sé la personalizzazione della politica. E’ sbagliata, se diventa auto-referenzialità del leader o presunto tale, specchio delle vanità, leggerismo ed espediente. Quello per cui è più facile vendere il proprio nome piuttosto che un’idea d’Italia realizzabile e un percorso credibile per arrivarci. L’iper-personalismo si brucia in fretta, la progettualità al servizio di un cambiamento radicale è assai impegnativa e vincolante ma è anche quella che contraddistingue una politica autorevole e in grado - ecco il vero nocciolo del voto del 25 settembre e tutto il resto è naturale propaganda da campagna elettorale - di mettere l’Italia in pole position nella gara a chi conta di più nel contesto internazionale. 
Per esserci, in questa competizione dura, la logica provinciale della listarella e del voto emozionale - il mio like non a un partito ma a un tizio - non è ciò che aiuta e non è ciò che serve. Ai tempi della Dc e del Pci a prevalere era l’identificazione in una prospettiva (di tipo ideologico, nel caso comunista) all’interno della quale esistevano personalità anche di enorme rilievo e diversissime tra di loro ma che non erano preponderanti rispetto a tutto il resto. La stessa mitologia berlingueriana è stata più successiva che coeva al segretario di Botteghe Oscure. 
La velocità social di questa campagna elettorale lampo, con il circo televisivo che deve affannosamente tenere testa al predominio della Rete almeno per ora, impone la semplificazione personalistica.

Si fa prima a viralizzare un nome e un volto, con annesso messaggio ma non è questo che conta, piuttosto che a diffondere e motivare una proposta, a meno che essa non corrisponda a uno spot o a una promessa spesso irrealizzabile. Per convincere non bisogna più dimostrare. E’ sufficiente mostrarsi dall’oblò del proprio simbolino e del proprio partitino. Con il rischio, per i cittadini, che il mix tra partitinocrazia ed egotismo produca poco di buono.

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