Alessandro Campi
Alessandro Campi

Politica assente / Quella paura del futuro che alimenta le rivolte

di Alessandro Campi
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Lunedì 20 Marzo 2023, 00:10

In molte parti del mondo - basta aver seguito la cronaca degli ultimi due mesi - sta dilagando la protesta dei cittadini contro i rispettivi governi. È un fenomeno da seguire con attenzione, per quello che sembra rivelare sullo stato presente della politica e sugli umori collettivi prevalenti in questa fase storica.
Per cominciare si tratta di una protesta generalizzata, ma con motivazioni che appaiono sulla carta nazionali. Sembra dunque esserci una grande differenza con le mobilitazioni transnazionali degli ultimi anni: Fridays for future, #MeToo, Black Lives Matter per citarne alcune. Che hanno avuto fattori aggreganti senza confini: la denuncia del riscaldamento globale, del razzismo e delle violenze sulle donne. 
Le radici della rabbia popolare sembrano oggi specifiche dei diversi Paesi. Quella dei greci è stata scatenata dal tragico incidente ferroviario costato la vita a molti giovani studenti: esasperati dal dilagare della disoccupazione, non si sentono al sicuro nemmeno quando viaggiano. I georgiani sono scesi in piazza, in nome del sogno europeo, per contrastare una legge liberticida sulle organizzazioni non governative. 
Folle di francesi infuriati bloccano tutto da giorni perché non vogliono una riforma che alza a 64 anni l’età pensionabile. Ancora. In Israele le più grandi mobilitazioni nella storia di questo Paese stanno avendo per obiettivo la riforma giudiziaria del governo Netanyahu. La Gran Bretagna è stata paralizzata dalle proteste di chi teme l’inflazione galoppante e nuovi tagli al bilancio statale. Migliaia di agricoltori e allevatori belgi e olandesi sono scesi in piazza contro il “piano azoto” proposto da Bruxelles e dal governo olandese di Mark Rutte: in nome dell’ambiente pulito paventano la rovina delle loro aziende. 
Spostiamoci fuori d’Europa. In Perù, già piegato dall’aumento dei prezzi del grano e dei fertilizzanti, da oltre tre mesi si susseguono violenti scioperi contro la presidente Dina Boluarde colpevole di non aver indetto elezioni anticipate dopo la deposizione e l’arresto del precedente capo dello stato Pedro Castillo. In Tunisia da settimane ci sono mobilitazioni contro le tentazioni autoritarie del presidente Kais Saied e l’aggravarsi di una crisi economica che spinge sempre più persone a fuggire attraverso il Mediterraneo. In Messico si sono alternate imponenti manifestazioni contro la riforma elettorale proposta dal presidente Andrés Manuel Lopez Obrador e contro la crescente violenza sulle donne. In Bangladesh le opposizioni protestano da mesi per via del bavaglio alla stampa voluto dal governo di Sheik Hasina, ma sullo sfondo ci sono l’insostenibile aumento dei prezzi dei beni essenziali e del carburante. Scioperi e cortei, animati dalle donne in lotta contro la morale religiosa imposta dal clero sciita e accompagnati da una dura repressione, vanno avanti da mesi nell’Iran da anni sotto embargo economico. 
In realtà, qualcosa in comune c’è in queste proposte. Nelle democrazie solide del mondo sviluppato si teme soprattutto di perdere le prestazioni garantite dallo Stato sociale. Dove la democrazia è solo una facciata o un traguardo ancora da raggiungere, ci si batte per i diritti civili basici, senza i quali non può esserci benessere. Dunque, due facce di un unico malessere: la paura di un futuro il cui corso, nell’epoca più tecnologicamente avanzata della storia, appare incredibilmente imprevedibile. Paura alla quale si collegano altri fattori che possono aiutare a comprendere questa esplosione simultanea di proteste. Di sicuro con la pandemia prima, con la guerra poi, si sono accumulati nel fondo delle diverse società dosi massicce di frustrazioni, ansie e paure irrazionali, pronte ad esplodere alla prima occasione. Le emozioni che sembrano dominare ovunque paiono il risentimento che nasce da una percezione di ingiustizia e un senso di crescente disperazione.
Sembra poi essersi radicata l’impressione che siamo nel mezzo di processi di cambiamento che difficilmente si svolgeranno senza costi e perdite: a partire dalla cosiddetta “transizione ecologica”. Le rivoluzioni, comprese quelle economico-tecnologiche, implicano sempre vincenti e sconfitti. Il timore di poter essere tra i perdenti basta da solo a scatenare reazioni rabbiose.
Aggiungiamoci il convincimento, anch’esso sempre più diffuso, che dalla politica odierna, ridottasi per chi la pratica a mera gestione del potere priva di ideali, non bisogna aspettarsi soluzioni o risposte ai propri problemi. La sfiducia verso governi e istituzioni dilaga, con problemi crescenti di legittimazione e lealtà soprattutto per le democrazie. 
Ma queste ultime sembrano scontare un problema in più, potenzialmente esiziale per il loro buon funzionamento. Un crescente corto circuito tra strutture rappresentative e volontà popolare, tra governi e cittadini, tra parlamenti e piazze. Il consenso elettorale genera un potere delegato che viene messo continuamente in discussione da chi non si riconosce nella maggioranza del momento e nelle sue scelte. Ne derivano due rischi potenziali: da un lato, il caos sociale che genera paralisi decisionale; dall’altro, la tentazione di sottrarsi alla pressione delle minoranze e delle piazze ricorrendo a soluzioni in senso lato autoritarie.
Parliamo infine di proteste di massa che ci consegnano l’immagine di cittadini che si sentono sempre più soli, impotenti e abbandonati a sé stessi, nella misura in cui – altro gran problema della politica contemporanea – funzionano sempre meno le tradizionali forme collettive di mediazione sociale, a partire dai partiti politici. Insomma, interi pezzi di mondo ribollono e protestano. È solo una congiuntura critica o l’annuncio del peggio che potrebbe venire?
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