Mario Ajello
Mario Ajello

Patto per l’esecutivo/Quei veti incrociati degli alleati irriducibili

di Mario Ajello
4 Minuti di Lettura
Giovedì 13 Ottobre 2022, 00:01

La composizione del governo si troverà. O l’incastro si è già quasi trovato e i cittadini potranno avere e giudicare un esecutivo che finalmente, a dispetto della tradizione italiana degli ultimi tempi, è frutto di una scelta elettorale e dal quale si aspettano risposte vere. Quello che un po’ stupisce - ed è un problema da risolvere in fretta perché può pesare negativamente sulla navigazione del governo - è soprattutto la tendenza da parte dei leader alleati a non accettare in pieno o fino in fondo, come se fossero frenati da una riserva mentale, la prevalenza della leader di Fratelli d’Italia e il fatto che gli italiani abbiano investito lei, e non altri, del ruolo di comando e dell’onore e onere di guidare il Paese. 

Si avverte una sorta di resistenza non solo politica ma anche culturale al riconoscimento completo, e sancito dalle urne, della premiership della massima esponente di Fratelli d’Italia. Se questo tipo di atteggiamento non andrà a scemare, potrebbe creare instabilità nel prossimo governo e rischiare, per questo motivo, di rendere più ampio e non più stretto il rapporto tra la società e le istituzioni alle quali viene richiesta sempre di più, e con crescente convinzione e amor di patria, unità d’intenti e coesione nei fatti. 
In passato, quando il capo del governo o comunque il leader della coalizione era Silvio Berlusconi, i vertici della Lega e del partito della destra - pur nella fisiologica dialettica interna e nella rivalità politica anche aspra da competition is competition in cui comunque Fini era un sottoposto - ne riconoscevano la supremazia, non avevano un atteggiamento di sottovalutazione o addirittura di strisciante delegittimazione più o meno mascherata. E lo stesso ha fatto Berlusconi in questi anni, verso Matteo Salvini che ha guidato il centrodestra forte della crescita del Carroccio e ha conquistato per se stesso e per il suo partito una centralità non messa in discussione. Il Cavaliere, nei confronti del leader alleato, si è messo infatti nella posizione del padre nobile oltre che del compagno di strada. 

Ma perché tutto questo - ossia l’accettazione senza ritrosie o retropensieri di un ricambio al vertice della compagine di governo - non sembra ripetersi adesso che c’è la Meloni sulla cima della piramide del centrodestra e incarna agli occhi dei più, anche di molti che non l’hanno votata, la figura dominante della nuova stagione? Dev’esserci un misto di testarda resistenza al cambiamento; di qualche forma di maschilismo o almeno di disabitudine ad avere nella posizione di guida una donna, e per di più non cooptata e non manovrabile, anzi convinta della proprio forza e non vogliosa di mascherarla ipocritamente; d’incredulità e di gelosia sia personale sia soprattutto politica (guai a invadere i nostri campi); di posture da patriarca (Berlusconi tende a considerare Giorgia pur sempre la «ragazzotta» che egli fece a suo tempo ministro della Gioventù) e da fratello maggiore (Salvini) che si sente superato.

C’è tutto questo nel deficit di riconoscimento che viene rivolto, ma magari si tratta soltanto dell’inizio e poi la cosa verrà superata ma intanto va pacatamente segnalata, a Meloni. Senza calcolare abbastanza quanto queste riserve, al di là dell’aspetto personale, corrano il pericolo di pesare sull’assetto generale. Ovvero possano dare agli occhi di tutti un’immagine della nuova politica troppo somigliante a quell’assemblearismo e a quella confusione che gli italiani vorrebbero non vedere mai più e si aspettano che vengano sostituite da decisioni e azioni il più possibile rapide e condivise.

Se questo è il quadro, esso contiene due paradossi. Il primo è che la coalizione guidata da una donna, e che senza di lei non avrebbe vinto, invece di farsi forza di questa novità mai tentata dagli avversari che pure hanno sempre fatto sfoggio di femminismo a parole e al posto di amplificarne la portata e di esaltarne le potenzialità, cerca di sottostimarla e ne sembra spaventata. Il secondo paradosso è altrettanto evidente. Nei sondaggi post-elettorali, Meloni è sempre più popolare e gode di una certa considerazione, o di sospensione di giudizio anche presso una porzione non irrilevante di elettori che non l’ha votata. E cresce la fiducia nella futura premier e nel governo che ancora non c’è. Nelle rilevazioni, la premier in pectore è al secondo posto nel gradimento degli italiani, dopo Draghi e al netto del presidente Mattarella. A un riconoscimento popolare di questi tipo dovrebbe corrispondere, sul versante dei rapporti politici tra partner, un investimento ancora più convinto e un affidamento meno condizionato anche in prospettiva da dubbi, veti, freni. La luna di miele (durerà?) della premier quasi incaricata con il Paese che l’ha voluta meriterebbe insomma, da parte dei colleghi, un analogo atteggiamento di curiosità e di apertura e un surplus di condivisione di un’esperienza di governo inedita e ampiamente legittimata. Il senso di responsabilità e una lungimirante dose di disponibilità sono altamente richiesti, e non nell’interesse di qualcuno ma per la convenienza di tutti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA