Paolo Pombeni
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Nuove convergenze/I partiti e le mosse (interessate) per il Colle

di Paolo Pombeni
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Mercoledì 1 Dicembre 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 2 Dicembre, 01:26

Tutti i partiti della maggioranza pronti a sostenere che Draghi deve rimanere a Palazzo Chigi, perché fa bene, anzi benissimo e deve arrivare a fine legislatura. Intanto però tutti a mettere paletti e zeppe nelle sue prospettive politiche, vedi non tanto i quasi seimila emendamenti alla legge di bilancio (quello è folklore di routine parlamentare), quanto il continuo sventolio di bandierine da parte dei leader dei partiti della larga coalizione: chi vuole tagli alle bollette, chi allargamento del bonus del 110%, chi rimodulazioni della riforma fiscale, e avanti di questo passo, con appelli e dichiarazioni a ruota libera.


Il fatto è che tutti sentono aria di appuntamenti con le urne: se la scadenza per quelle nazionali è incerta (ma questo li preoccupa non poco), per le amministrative della prossima primavera è certa, e magari c’è anche la suppletiva per il seggio di Gualtieri a Roma, piccola cosa, ma che potrebbe anche diventare emblematica e a suo modo dirompente se di mezzo ci sarà la candidatura di Virginia Raggi. E’ un panorama che non è esattamente favorevole alla valorizzazione piena delle capacità di leadership di Draghi come premier.


Chi guarda le cose dall’esterno delle lotte di fazione non può far a meno di chiedersi se il tenere l’attuale premier lontano dal Quirinale non risponda all’idea ) magari cosciente solo a metà, che così sarà centrale al massimo per 18 mesi, mentre salito al Colle lo sarebbe per sette anni. Giusto per giocare un poco con le reminiscenze storiche, ci ricordiamo che nel 1962 si discusse di una successione di Fanfani a Gronchi, ma fu scartata per non privare il nascente centrosinistra del suo “motore” nell’esecutivo. Alla fine fu eletto Segni e presto Fanfani venne rimosso dal governo, anche lì dopo circa un anno e mezzo e anche in quel caso sull’onda di una tornata elettorale del 1963 che sembrò ridisegnare il panorama degli equilibri.


Per carità, le analogie in storia non si dovrebbero mai usare per cavarne regole, ma per qualche stimolo di riflessione lo possiamo fare. Nel nostro caso la funzione che esercita una personalità come Draghi è più che evidente, resta da vedere come possa essere garantita, sia pure relativamente come è sempre in politica, per il tempo (non breve) necessario per quella ricostruzione del Paese che è nell’interesse di tutti.
Il problema delicato che ci pare non venga sufficientemente in considerazione è che il prossimo presidente della Repubblica dovrà affrontare la gestione del quadro che emergerà dalle elezioni nazionali, che siano a scadenza del 2023 o anticipate non cambia molto. Se le urne dessero un risultato molto netto ci sarebbe comunque da gestire l’equilibrio fra vincitori e sconfitti: le esperienze dell’ultimo trentennio, con l’orgia di delegittimazioni reciproche a cui abbiamo assistito, ci indicano quanto delicato diventerà il ruolo del Quirinale. 


Ancor più complicato nel caso, niente affatto improbabile, che dalle urne non uscissero maggioranze nette.
I partiti conoscono benissimo questo quadro ed è su questa base che ciascuno tesse la sua tela per immaginare il finale del romanzo quirinale. Paradossalmente è in questo scenario che Draghi parte con degli handicap. La sua elezione al Colle non sarebbe imputabile al favore dei partiti, ma all’imporsi delle sue qualità, il che lo rende molto libero nel determinare le sue condotte nel lavoro di arbitraggio e di indirizzo, mettiamola così, fra le forze che si contrapporranno. Altri candidati scelti invece sulla base di un contratto per quanto più o meno implicito fra i partiti sarebbero meno liberi, almeno nella prima fase del mandato, in quanto espressione dell’equilibrio raggiunto sotto la pressione della congiuntura attuale.


Ovviamente il Presidente è poi costituzionalmente svincolato dalle maggioranze che lo hanno eletto, ma che le contingenze pesino è la storia a ricordarcelo. Il congelamento poi della situazione attuale con il mito di mantenere il quadro del duo Mattarella-Draghi non trasmetterebbe una immagine in salute del nostro sistema politico, senza contare la davvero poco commendevole attitudine a non tenere in conto la valutazione espressa dal nostro Presidente sulla non proponibilità di una sua conferma. Per il rispetto che si deve ad una personalità che ha mostrato grandi doti di equilibrio e di sapienza costituzionale, si dovrebbe quantomeno accettare sulla fiducia, se non si riesce a capirlo per ragionamento, che Mattarella ha le sue ragioni per agire in un certo modo.


Insomma non si tratta di impelagarsi nel giochetto di spingere questa o quella candidatura, ma di richiamare la necessità di salvaguardare insieme due esigenze della massima importanza.

La prima è come garantirsi un governo di alto profilo e autorevolezza per il più lungo tempo possibile, considerate le prove a cui il Paese è chiamato (pandemia, Pnrr, ecc.). La seconda è come giungere ad eleggere un Presidente della Repubblica che sia sostegno ed asse della congiunzione fra la coesione sociale necessaria all’Italia di oggi e la gestione della sua sfera istituzionale (politico-parlamentare, ma non solo).


Il sistema complessivo delle nostre classi dirigenti, che non sono solo quelle presenti nei partiti, deve prendersi carico nel suo insieme di affrontare il tornante storico che abbiamo davanti.

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