Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

Le vie della pace/ Il dialogo con la Cina per parlare alla Russia

di Vittorio Emanuele Parsi
3 Minuti di Lettura
Domenica 15 Maggio 2022, 00:10

Anche se siamo solo a metà maggio, il titolo di “impiegato dell’anno”, alla Nato, l’ha già vinto Vladimir Putin, “per aver posto le premesse per l’inattesa adesione di Svezia e Finlandia, Paesi dalla lunga tradizione neutrale, all’Alleanza Atlantica”. Già, perché è stato proprio il capo Cremlino a distruggere le condizioni sulle quali lo status di neutralità potesse offrire una qualche garanzia di sicurezza e a costringere i governi dei due Stati nordici a fare un passo mai contemplato prima, neppure ai tempi della Guerra Fredda, quando il confine tra Est e Ovest, nel cuore della Germania divisa, scorreva lungo il fiume Elba.
Già si è levato il coro di chi, con una stupefacente inversione della logica – è l’Italia, bellezza! – vede nella scelta delle due consolidate democrazie una forma di escalation. 
Siamo alle solite, a un passo dalle accuse di co-belligeranza della Nato e della Russia in Ucraina, come fossero in solido responsabili della guerra o del suo prolungamento. Ci si dimentica come sempre che se, dagli anni ’90 a oggi, una lunga lista di Paesi un tempo sotto il tallone sovietico oppure neutrali ha voluto aderire alla Nato e alla Ue, lo ha fatto perché identificava nell’appartenenza all’Occidente e alle sue istituzioni il futuro cui aspirava e vedeva nella Russia il passato da cui fuggire.
Putin e i tanti pseudo-realisti che confondono i loro schemi ideologici con la realtà – la quale non è costituita solo da “eventi” o “interessi materiali”, ma anche da principi e categorie interpretative – faticano a capire che la causa della debolezza della Russia post-sovietica sta nella sua non attrattività: basso Pil, bassa partecipazione al commercio internazionale, autoritarismo e repressione sempre più marcati, un’ideologia che è un intreccio di nazionalismo ultrareazionario, xenofobia e disprezzo per le libertà individuali. Non riescono a comprendere che lo status di grande potenza – a parte nel gioco del Risiko – deriva dalla capacità di attrazione che si possiede, e non dal mero riconoscimento da parte delle altre grandi potenze di fantomatiche sfere di influenza.
Se usciamo da un dibattito italiano che, a volte, più che il bar sport, ricorda il bar di Guerre stellari per i personaggi che lo consumano (alimentarlo sarebbe un’altra cosa), ci rendiamo facilmente conto che, invece che allargare il conflitto, questa mossa, ne facilita la conclusione: perché mette Putin e i suoi alleati di fronte al plastico fallimento di una strategia che, tra l’altro, fornisce la misura di quale colossale abbaglio (per alcuni molto interessato) sia stato credere alla triste epica del “cinico ma geniale dittatore”. Si vocifera di tensioni a Mosca, ma quello molto più interessante è osservare il gelo cinese. A Pechino, nel Partito comunista, inizia a consolidarsi la convinzione che l’allineamento di Xi Jinpi con Putin, il disco verde dato all’invasione durante il vertice olimpico, sia stata una scelta avventata e sbagliata per la Cina, contraria ai propri interessi. E allora è con la Repubblica popolare cinese che occorre rafforzare una linea di dialogo, affinché convinca il suo alleato minore – perché questo è la Russia rispetto alla Cina – che, continuando sulla via intrapresa, si ritroverà completamente isolata. Trovare una via negoziale al conflitto non può e non deve significare regalare a Putin quello che non è riuscito a estorcere con la violenza, attraverso una guerra condotta con modalità efferate. Cercare la triangolazione con Pechino è il solo modo per andare oltre lo stallo negoziale, che peraltro è il riflesso delle difficoltà russe sul terreno.
È un test decisivo per capire se davvero nell’ordine internazionale Pechino aspira a essere la “numero uno”, oppure a non voler essere “seconda a nessuno”: il nuovo egemone di un ordine alternativo a quello liberale o un partner di pari dignità in un ordine liberale rinnovato e allargato? Si tratta di una differenza cruciale per il futuro di un ordine stabile e pacifico, che sia accettabile per la Cina, l’Europa e anche per gli Usa, se depotenziato dalle reciproche preoccupazioni per la rispettiva sicurezza militare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA