Alessandro Campi
Alessandro Campi

Il nuovo corso M5S/ Anatomia di un partito che contesta “con garbo”

Il nuovo corso M5S/ Anatomia di un partito che contesta “con garbo”
di Alessandro Campi
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Venerdì 6 Agosto 2021, 00:55 - Ultimo aggiornamento: 7 Agosto, 22:20

Dopo mesi di polemiche e tensioni, lo psicodramma grillino sembrerebbe giunto alla fine. Il nuovo Statuto è stato approvato con il voto semi-plebiscitario di una platea per niente plebiscitaria: la democrazia diretta, per come l’abbiamo conosciuta in occasione di alcune consultazioni primarie del Partito democratico, ha avuto numeri ben più importanti. Una minore enfasi retorica, quando si portano a votare nemmeno sessantamila persone che da casa debbono solo premere un tasto, sarebbe dunque gradita.


Questa sera, dopo il lungo e duro contenzioso che l’ha opposto a Beppe Grillo – volarono tra i due parole gravi e offensive, ma essendo la nostra una democrazia fondata sull’oblio di ciò che si è detto il giorno prima tutto è stato già rimosso – sapremo anche con che percentuale di voti online Giuseppe Conte sarà nominato Presidente. Speriamo nessuno parli di una consacrazione a furore di popolo anche se dovessero votarlo in centomila su centomila. Le competizioni per la leadership politica sono un’altra cosa, non le gare solitarie e spesso truccate cui siamo abituati in Italia.
Nuove regole, un capo politico dotato di legittimità formale e politica (addio reggenze o triumvirati), presto un nuovo organigramma dirigente nominato dall’alto, insomma un nuovo partito sanamente e tradizionalmente dirigista. 


Ma per fare cosa, per essere cosa? E quali sfide, ovvero quali rischi, attendono Conte?
Del nuovo corso grillino qualcuno pamrla come di una prova di maturità decisa responsabilmente dai suoi vertici, altri come di una forzata normalizzazione iposta alla base militante: in entrambi i casi nel segno del realismo e dello spirito di sopravvivenza. Sono vere entrambe le cose. Si tratta di un passaggio divenuto in effetti necessario dopo l’ubriacatura elettorale del 2018 e il fallimento delle due alleanze, quella giallo-verde e quella giallo-rossa, che dovevano cambiare l’Italia e il modo di fare politica, mentre invece ci hanno portate dritti verso il governo tecnico-istituzionale guidato da Draghi.

L’alternativa alla monocrazia contiana, da vedere ora alla prova, sarebbe stata la lenta dissoluzione di un intero mondo: Grillo per primo lo ha capito ed è la ragione per cui, non senza tormenti, ha ceduto il controllo della sua creatura. Proprio il rapporto con Draghi rappresenta uno dei primi banchi di prova del nuovo partito. Si proverà a sfiancarlo, vista l’ansia di rivalsa che divora Conte da quando è stato bruscamente sfrattato da Palazzo Chigi? Si arriverà ad una rottura plateale con l’idea di riprendersi piena libertà di manovra e tornare alle vecchie battaglie? Quanto accaduto sulla riforma della giustizia ha in realtà mostrato il copione al quale i grillini si atterranno sino alla fine della legislatura: disciplina in aula, malumori in pubblico. L’ha spiegato con candido realismo Luigi Di Maio: ci sono troppi miliardi di euro da gestire per concedersi il lusso suicida di abbandonare il campo di gioco mentre la partita sta iniziando.

Un approccio pragmatico che peraltro sembra a misura dello stesso Conte, davvero poco credibile nei panni – che pure nel recente passato ha cercato di indossare – del populista passionale o del capopopolo incendiario. Uomo di relazioni, mediatore instancabile per forma mentis professionale, calcolatore accorto, ciò che si può aspettare da lui – nella migliore delle ipotesi – è una sorta di “rivoluzionarismo gentile”, una forma di “radicalismo di centro” che provi a tenere insieme ambientalismo, diritti civili, cultura digitale, neo-assistenzialismo di Stato, democrazia diretta in dosi omeopatiche, sempre però con l’occhio attento alle alleanze, ai giochi di palazzo, ai rapporti istituzionali e alla gestione pratica del potere, lasciando dunque perdere una volta per sempre i sogni di palingenesi e le pulsioni antisistema che avevano caratterizzato il grillismo delle origini.

Una metamorfosi, più che un cambiamento. 


Il problema, se questa è la strada, sarà soprattutto per e con il Partito democratico: alleato necessario del M5S, per comune volontà, ma anche suo diretto competitore. Col rischio, già evidenziato da molti, di una sovrapposizione di temi e istanze che, oltre a generare confusione nell’elettorato, potrebbe finire per danneggiare elettoralmente entrambi i partiti visto il rischio di doversi dividere la stessa torta. 


Ma questo riguarda il domani prossimo. Per l’oggi l’obiettivo di Conte è consolidare rapidamente il suo potere e accreditarsi nel suo nuovo ruolo, non privo di difficoltà e incognite. Da Presidente del Consiglio, specie nei mesi difficili della pandemia, egli ha potuto godere di uno stato di grazia: mediava tra i partiti riservandosi spesso l’ultima decisione, incassava il gradimento pubblico legato al ruolo, godeva di una visibilità interna e internazionale altissime. Oggi è un capo fazione tra gli altri costretto a conquistarsi spazio e credibilità a suon di slogan e promesse non sempre credibili. Non può più pretendere di parlare ex cathedra o da una posizione super partes, tanto meno può atteggiarsi a tecnico del diritto neutrale e obiettivo: è entrato nella lotta politica, quella dura, dove per sopravvivere e imporsi non basta avere un buon portavoce. L’ambizione, per sua fortuna, non gli manca. Mostrerà anche quel mix di risolutezza e spregiudicatezza senza il quale meglio non avvicinarsi al gioco politico? 

Peraltro non è da escludere che anche all’interno del M5S Conte possa incontrare, alla minima difficoltà o al primo errore, qualcuno disposto a contestare una leadership piovutagli addosso, come già fu l’incarico di Presidente del Consiglio, per grazia dall’alto. Il pensiero corre veloce a personalità fortemente politiche come Di Maio, Fico o Di Battista, rispetto ai quali Conte sconterà sempre un punto di debolezza che discende dalla natura tecnicamente settaria e quasi carbonara del grillismo. Parliamo infatti di una realtà politica sui generis, nella quale – anche nel passaggio dalla poesia della ribellione alla prosa governativa – conta ancora molto essere stato membro della setta sin dalle origini, averne condiviso i miti d’origine e le parole d’ordine fondative, aver avuto esperienza e conoscenza diretta del verbo proferito ai primi adepti dai due carismatici fondatori. Tutte cose che sono estranee al percorso biografico di Conte, arrivato tardi e per vie traverse nei ranghi del M5S. Non un corpo estraneo, ma certo una figura tangenziale a quel mondo.
Oggi egli appare il Salvatore, dopo tanto caos interno. Ma a decidere la forza della sua leadership saranno inevitabilmente i primi risultati elettorali. Si capirà allora se una forza politica nata sull’onda del risentimento sociale e della voglia di sfasciare tutto possa davvero cambiare pelle senza perdere, insieme alla sua anima originaria, voti e consensi, forza sociale e ragion d’essere politica. 

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