Riccardo Sessa

Il negoziato/ Se morire per un ideale può essere evitato

di Riccardo Sessa
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Mercoledì 20 Aprile 2022, 00:32 - Ultimo aggiornamento: 00:33

Morire per Mariupol e per il Donbass, come ottantatrè anni fa ci si chiedeva se fosse il caso di morire per Danzica? Questo è l’interrogativo che ci poniamo oggi a quasi due mesi dall’inizio di una guerra che ha sconvolto non solo la vita di un’intera nazione, ma anche di una parte importante del mondo. Una guerra di cui sappiamo quando è iniziata, come e perché, ma non quando e come finirà, e di cui tutto lascia intendere che siamo ) all’inizio di una nuova - la decisiva? - offensiva.E non ci si faccia rilevare che queste domande sono retoriche e che il solo porle significa schierarsi. 

La Storia, quella vera, che tanti hanno dimenticato, o fanno finta di averla dimenticata - basti vedere come l’Occidente non ha saputo gestire Putin - si ripete, e anche ottant’anni fa c’era un dittatore che aveva messo gli occhi su uno Stato vicino in difesa del quale si mobilitarono i governi europei. Senza voler spaventare nessuno, allora si morì per Danzica e per tante altre Danzica altrove e purtroppo scoppiò una guerra su scala mondiale. Da allora la comunità degli Stati è maturata ed è cresciuta coltivando la cultura insieme della coesistenza, della collaborazione e del dialogo in contrapposizione a quella del confronto, almeno dalla nostra parte del mondo. Ciò non ha purtroppo impedito guerre locali, alcune anche con delicate ripercussioni internazionali, o pericolosi focolai (si pensi ai Balcani o all’Afghanistan).

Allora, qual è il senso della domanda se si debba morire o meno per Mariupol e per il Donbass? Esattamente lo stesso sul quale si confrontarono i nonni o i genitori di tanti di noi. Mariupol, a differenza di Danzica, resiste, novello Davide, da più di cinquanta giorni all’assedio di un esercito che si credeva Golia e che tale ha dimostrato di non essere. Danzica nel 1939 significava per Hitler l’accesso al Mar Baltico per il tramite del porto polacco di Gdnia, così come per Putin Mariupol garantisce il passaggio tra la Crimea e il Donbass e quindi il Mar d’Azov e la maggioranza della parte ucraina del Mar Nero. Tutto qui. E non è poco. Ecco allora il valore, non solo simbolico, di Mariupol e più in generale della resistenza del popolo ucraino in quell’area. E la smettano tutti coloro che ancora si sbracciano per accreditare versioni fantasiose del “soccorso rosso” alle popolazioni filo-russe del Donbass e della Crimea per “denazificare” l’Ucraina.

Ricordiamo per l’ennesima volta pochi concetti fondamentali. Nelle guerre, di regola, c’è sempre uno che attacca e uno che si difende, con quest’ultimo che si batte contro il primo e con entrambi che cercano di vincere. Da millenni, sia il primo, che il secondo hanno beneficiato dell’aiuto di altri, ovviamente amici o alleati. Questo è esattamente quanto sta succedendo oggi tra la Russia e l’Ucraina. I soliti esperti della scuola del “sì, ma però” sostengono che aiutare l’Ucraina fornendo armi vuol dire provocare una terza guerra mondiale, e lo stesso succederebbe aumentando le sanzioni nei confronti della Russia, o facendo entrare l’Ucraina nell’Unione Europea, o la Svezia e la Finlandia nella Nato. Poiché queste sono esattamente le tesi sostenute da Putin, qualche domanda dobbiamo porcela sulla credibilità di quelle osservazioni.

Dobbiamo anche ribadire un altro concetto. Pace, o guerra? A una domanda posta in questi termini se il 99,99% di qualunque popolazione non risponde in favore della pace c’è qualcosa che non va. Il problema non è quello. Il problema è di iniziare seriamente a lavorare per creare le condizioni per una pace credibile e sostenibile, il che significa far cessare quella guerra.

I mezzi a disposizione per raggiungere quel risultato partono da una premessa molto semplice: far capire a Putin che non può raggiungere il suo obiettivo di annettere tutta l’Ucraina, quindi non gli deve essere consentito vincere sul piano militare. Premessa che si traduce in alcuni imperativi: 1) avviare finalmente un’iniziativa diplomatica coordinata nei confronti della Russia per far cessare le ostilità, 2) mantenere alta, e aumentarla, la pressione sul piano delle sanzioni contro la Russia (che continua ad incassare ogni giorno dall’Europa 850 milioni di euro per le forniture energetiche!), 3) mettere l’Ucraina in condizioni di non perdere la guerra sul piano militare, elevando qualitativamente e quantitativamente gli aiuti militari all’Ucraina. Come combinare insieme i tre fattori non è semplice. C’è un aspetto da non sottovalutare. Questa in corso è innanzitutto una guerra di comunicazione. Allora sarebbe il caso di iniziare a parlare meno con gli strumenti della moderna comunicazione e fare di più in maniera più riservata. Sul piano degli aiuti militari, o su quello del negoziato diplomatico, non è difficile, basta volerlo, ma soprattutto saperlo fare. Inutile animare rumorosi concerti o accendere troppi riflettori su allargamenti, o adesioni, che, lo sappiamo, richiederanno del tempo. Cominciamo a rispolverare metodi ispirati a quella sana discrezione con la quale la diplomazia ha operato per secoli, i soli che prima o poi consentiranno quella quadratura del cerchio che farà in modo che la cosiddetta “perdita della faccia” alla fine non sia troppo dolorosa. Che il Quint occidentale (Usa, Francia, Germania, Italia e Regno Unito), insieme all’Unione Europea e agli altri paesi coinvolti ieri nella video-call di Biden, sia più attivo per preparare il terreno ad una nuova offensiva sul piano politico e diplomatico. Non dimentichiamo che la Russia si sente ancora una grande potenza e pretenderà di essere trattata come tale, da pari a pari. Gli Stati Uniti non devono dimenticarlo perché hanno e avranno una grande responsabilità per favorire una pace, il cui raggiungimento non può essere lasciato solo a Papa Francesco (dalle parti di Putin continuano ancora a chiedersi quante divisioni abbia il Santo Padre!). Questo ci riporta ancora una volta a ribadire il ruolo molto importante al quale la Cina non può sottrarsi essendo la terza grande potenza della partita. E allora dobbiamo tenere presente come Pechino - che ha più interesse ad avere buoni rapporti con l’Occidente, piuttosto che con la Russia - possa e debba essere approcciata in quell’ottica. Per avvicinare i cinesi però ci vogliono tempi e liturgie che occorre conoscere e saper rispettare. Proclami via twitter ottengono il risultato contrario, e la pace si allontana.

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