Alessandro Campi
Alessandro Campi

Valori poco condivisi/Se l’idea di nazione dipende dall’ideologia

di Alessandro Campi
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Lunedì 29 Maggio 2023, 01:03 - Ultimo aggiornamento: 21:10

Sulla strategia egemonistica della destra al governo si stanno leggendo cose persino divertenti, che se da un lato denotano un eccesso di nervosismo politico-giornalistico da parte di chi ne sta facendo oggetto quotidiano di denunce, dall’altro sono indice di una totale mancanza di senso dell’umorismo. Ad esempio, che tale strategia avrebbe tra i suoi punti qualificanti e più insidiosi nientemeno che la riproposizione sulla televisione di Stato del concorso di Miss Italia col suo contorno di belle ragazze in costume da bagno.
Per la destra, si tratterebbe d’una forma di restaurazione culturale: il ritorno ai “valori” della tradizione, cominciando dal maschilismo che usa le donne per il suo diletto. Per la sinistra, che suona l’allarme contro simili fantasmi, di una regressione rispetto ai progressi di una modernità che tra i suoi valori fondanti evidentemente non ammette competizioni estetiche in due pezzi anche se su base volontaria.


In effetti, viene un po’ da ridere a pensare che sia questa la posta in gioco della guerra culturale italica in corso. Non perché si voglia negare l’esistenza tra maggioranza e opposizione, pur nella condivisione (si spera) di alcuni fondamentali valori democratici, di visioni del mondo e della società alternative. Ma perché, per fortuna di tutti, le questioni sulle quali dividersi sono eventualmente altre, decisamente più serie delle ipocrite polemiche sulla lottizzazione della Rai. 


Ad esempio, cosa sia una nazione, cosa la tiene unita e la fa vivere, quale sia il suo futuro nel contesto storico attuale (se ne parlerà domani in un convegno al Senato proprio con l’idea di capire quale declinazioni se ne possa dare in quest’epoca).


Giorgia Meloni, come si sa, ha costruito sul patriottismo e sull’identitarismo in chiave nazionale il suo linguaggio pubblico e la sua immagine come leader. Per i suoi avversari si tratta tuttavia di un investimento politico-simbolico errato. Per due ragioni essenziali: da un lato perché la nazione rappresenta un anacronismo ideologico superato dai tempi, dall’altro perché costituisce una formula di mobilitazione-aggregazione sociale pericolosa come la storia del Novecento ha abbondantemente dimostrato.


In realtà, quest’ultima ha dimostrato, a voler essere precisi, una cosa diversa: il riproporsi prepotente sulla scena pubblica dell’idea politica di nazione tutte le volte che ne è stata annunciata, evidentemente con troppa fretta ed eccesso di sicumera, la scomparsa. Data come imminente, necessaria e ineluttabile salvo vedersi puntualmente smentiti dai fatti.
Un bel caso di resilienza, come si dice oggi, che andrebbe spiegato al di là delle preferenze o simpatie soggettive che in quanto tali spesso determinano abbagli e cattive letture della storia.


Giorgia Meloni, e con lei molti altri leader politici in giro per il mondo, hanno puntato sul nazionalismo culturale e sul modello dello Stato-nazione sovrano in una fase storica che, essendo dominata da una progressiva globalizzazione-integrazione delle culture storiche, dei modelli economico-sociali e delle formule politiche di convivenza collettiva (comprese quelle a base democratica), sembrerebbe rendere inevitabile il superamento del particolarismo ispirato dal vecchio sentimento di amor di patria inteso come fondante l’organizzazione di una comunità politica. Ciò denoterebbe appunto il loro passatismo nostalgico. 


Sennonché proprio alle dinamiche - evidentemente non previste o sottovalutate - della globalizzazione si deve il fatto che, dinnanzi alla prospettiva di ritrovarsi noi tutti non cittadini di un mondo unificato dalla tecnica e dall’economia, ma individui privati di ogni ancoraggio sociale e dei più basici riferimenti spaziali e normativi, nella migliore delle ipotesi consumatori globali senza fissa dimora e senza legami affettivi stabili, ci si sia sempre più abbarbicati a difesa della formula statual-nazionale.

 
Che storicamente ha garantito proprio questo a molte porzioni di mondo: un’identità, individuale e collettiva, riconoscibile; un’idea del futuro comune ancorata ad un passato idealmente condiviso; un quadro istituzionale basato sul valore della libertà e dell’indipendenza.


Formula vecchia, si dice a sinistra con troppa disinvoltura.

Certo, ma il vecchio non è sinonimo di obsolescenza. E in ogni caso meglio tenersela ben stretta se l’alternativa ad essa è troppo incerta o vaga (la democrazia post-nazionale), o troppo pericolosamente incline all’utopismo da Stato mondiale omogeneo.


Tra l’altro, se è vero che il nazionalismo può assumere, come si vede anche oggi in alcuni luoghi della terra, sembianze aggressive ed escludenti, specie se l’unità collettiva viene ricercata sul terreno della biologia o di un passato totalmente artefatto, è vero anche che storicamente esso - in particolare nell’esperienza dell’Europa contemporanea - si è saldato con la democrazia politica e il pluralismo sociale più di quanto ammettano i suoi critici.
Insomma, con l’idea di liberarsi una volta per sempre del fantasma della nazione totalitaria, verso il quale in realtà non si vedono nella politica odierna nostalgici disposto ad invocarlo, si rischia di buttare via prematuramente anche la nazione liberale e democratica che fa da cornice simbolica a molti Stati odierni e che, cosa ancor più importante, ha dimostrato di agire da freno ad una globalizzazione altrimenti puramente distruttiva del passato.


Non solo, ma con l’idea che l’identità oggi possa essere declinata solo al singolare, lasciando ai soggetti la facoltà di cambiarla alla carta secondo capriccio, si finisce per sottovalutare l’importanza di quelle collettive costruite sulla base di lente stratificazioni storiche e per questo meno facilmente reversibili. E come tali necessarie all’equilibrio sociale. 


La destra difende la nazione, in una chiave retorica e ideologica come dicono i suoi critici. La sinistra la combatte come un’idea priva di attualità e valore, sulla base di un pregiudizio culturale che peraltro è politicamente controproducente visto come va il mondo e come si orientano gli elettori quando votano.


In realtà, quelle di nazione e patria - con ciò che esse implicano: un’idea sufficientemente condivisa del bene comune e degli interessi dello Stato cui si appartiene, una forma di legame sociale più forte delle differenze sociali o culturali, un ancoraggio simbolico senza il quale anche la democrazia delle regole rischia di non funzionare - sono termini che, per definizione, dovrebbero andare oltre le ideologie di parte, con la destra e la sinistra interessante semmai a offrirne diverse ed entrambe legittime declinazioni.


Ma così appunto vanno le cose nell’Italia dell’a priori ideologico e del partito preso. La destra avrà anche la colpa di rivendicarle opportunisticamente e di pretenderne per sé il monopolio. Ma la sinistra ha la colpa, forse anche più grave, di essersi irrigidita politicamente e culturalmente su certe sue vecchie e ormai false certezze e di aver così regalato patria e nazione ai suoi avversari. Che, va da sé, sentitamente ringraziano. 

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