Alessandro Campi
Alessandro Campi

Valori e ideologie/ I conservatori e il nuovo campo largo della destra

di Alessandro Campi
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Giovedì 16 Dicembre 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 07:33

Il “Natale dei conservatori e dei patrioti” organizzato con indubbio successo da Giorgia Meloni – due mesi fa accusata di dare copertura ai nostalgici del mussolinismo, divenuta nei giorni scorsi una perfetta padrona di casa nel cui salotto tutti si sono amabilmente accomodati, a conferma di quanto ipocrita e frivola possa essere la politica italiana – ha suscitato in molti osservatori interrogativi sarcastici e non sempre benevoli. 
Esiste anche un “Natale dei progressisti” o su questa ricorrenza religiosa una parte politica può legittimamente rivendicare una sorta d’esclusiva simbolica? Quanto è opportuno e conveniente, agli occhi degli stessi credenti ai quali s’intende strizzare l’occhio, mescolare così sfacciatamente sacro e profano, religione e politica? Ha senso richiamarsi al conservatorismo in un Paese che non ha mai conosciuto un partito autenticamente ed esplicitamente conservatore? Si appellano “patrioti” i propri seguaci e simpatizzanti solo perché non si ha il coraggio di chiamarli “camerati”?
Ma la festa di Atreju, al di là dei tatticismi legati all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e che più d’ogni altra cosa spiegano il via vai di leader sul palco romano, ha anche sollevato delle legittime curiosità su quel che sta accadendo (o che potrebbe accadere) alla destra italiana nel prossimo futuro.

Dal punto di vista mediatico, l’operazione voluta dalla Meloni un primo e importante risultato l’ha già ottenuto. Essa è servita per togliersi dalle spalle le diverse etichette – populismo, sovranismo, nazionalismo, da intendersi per chi le usa ossessivamente come varianti o mutazioni post-moderne del virus del fascismo – che la sinistra ha imposto in questi anni per definire la destra con l’obiettivo di tenerla ideologicamente sotto scacco.
La guerra sulle parole in politica è la più difficile da combattere e vincere, ma è quella notoriamente decisiva. Chi sceglie i termini e i concetti (con i relativi significati) attraverso i quali gli altri parlano, facendoli diventare senso comune e opinione diffusa, ha già vinto. In realtà, come debba auto-rappresentarsi l’orientamento politico di coloro che votano o voterebbero la Meloni è una scelta che dovrebbe spettare a quest’ultima, non ai suoi nemici-avversari. Anche se costoro, c’è da giurarci, presto troveranno il modo di spiegare che anche il conservatorismo, a ben vedere, rappresenta un succedaneo del fascismo.
Senonché limitarsi a giocare con le etichette – dando ad esse significati vaghi o, peggio, lasciandole vuote di contenuti – rischia di confermare quel lato superficiale ed effimero della politica italiana che basta da solo a spiegare la cattiva considerazione che ne hanno sempre più italiani.


Dirsi conservatori infatti non significa ancora essere conservatori, tantomeno significa agire da conservatori. Alle parole, anche se legittimamente forzate in una chiave retorica e propagandistica, debbono necessariamente accompagnarsi pensieri, fatti e comportamenti minimamente coerenti, pena la perdita di ogni credibilità. Scelta l’etichetta con la quale presentarsi sulla scena pubblica, resta dunque da capire come Fratelli d’Italia intende tradurla concretamente. Altrimenti, si tratterà dell’ennesimo maquillage o camuffamento ad uso elettorale: una specialità negativa dei nostri leader. 
In Italia, come accennato, nessun partito si è mai definito apertamente conservatore, forse per timore di essere liquidato come retrogrado e anti-storico (anche questa una vittoria della sinistra, un segno della sua egemonia culturale). Lo stesso può dirsi per il mondo intellettuale: nel secondo dopoguerra sono stati davvero pochi quelli che hanno rivendicato un simile marchio e chi lo ha fatto in modo esplicito – ad esempio Giuseppe Prezzolini, autore nel 1972 di un fortunato Manifesto dei conservatori – era anche convinto che il conservatorismo fosse un’attitudine caratteriale, ovvero un atteggiamento mentale soggettivo, difficile da tradurre in un progetto politico-partitico.


Ciò non toglie che una parte consistente della società italiana – quella che in passato votava in maggioranza Democrazia cristiana, quella che dal 1994 in poi s’è riconosciuta nell’alleanza di centrodestra – sia storicamente caratterizzata da un’istintiva avversione ai cambiamenti troppo traumatici, da una sorta di tradizionalismo valoriale e culturale, da una forma di attaccamento alle credenze religiose (al limite del bigottismo) e alle convenzioni e forme sociali ereditate dal passato (a costo di sfociare nel conformismo), da un sentimento politico che oscilla, spesso in modo contraddittorio, tra patriottismo legato al tricolore e orgoglio municipalistico, tra il rispetto dell’autorità costituita e la difesa dei propri interessi dall’invadenza del potere pubblico, tra statalismo e individualismo. 
Ma mettiamoci anche, specie nelle generazioni più anziane o radicate nelle zone interne del Paese, una visione del lavoro inteso come dovere sociale, un nostalgismo non politico ma legato ad un passato idealizzato fatto di relazioni sociali più autentiche, una visione della società “legge e ordine”.
Il che significa che se non è esistito il conservatorismo come tradizione ideologica consolidata o come forza politica organizzata, sono tuttavia esistiti (e ancora oggi esistono) i conservatori come individui e come sentimento collettivo radicato e diffuso a livello popolare.

I timori verso il futuro alimentati da una globalizzazione economica spesso senza freni e, più di recente, dalla crisi pandemica globale hanno probabilmente accresciuto il peso di questa componente psicologica e sociale, anche fuori d’Italia.


Con la differenza, rispetto ad altri Paesi, dalla Francia alla Gran Bretagna, dalla Spagna all’Austria, che in Italia ancora non esiste un partito che si sia mostrato capace di incanalare le esigenze e le attese di questo pezzo di società all’interno di una cornice politica coerente e organica. Ci ha provato a suo tempo Silvio Berlusconi, ma in una chiave eccessivamente personalistica e istrionesca e nascondendosi dietro un liberalismo puramente di facciata. In anni recenti sono stati Salvini e la stessa Meloni a capitalizzare il consenso di questa parte d’Italia, ma lo hanno fatto cavalcandone a colpi di slogan semplicistici le paure, le idiosincrasie e i malumori, con molte ambiguità ideologiche (le simpatie putiniste e l’anti-europeismo manifesto del primo, l’eccessiva tolleranza della seconda verso certe forme di nostalgismo neofascista ancora presenti in Fratelli d’Italia) e senza offrire ad essa un disegno progettuale orientato al governo.
La svolta lessicale della Meloni potrebbe ora preludere ad un cambio di strategia e, per certi versi, anche di mentalità e cultura politica. Come esiste il campo largo progressista, che Enrico Letta vorrebbe egemonizzare in concorrenza con i grillini di Conte, così esiste anche un campo largo moderato-conservatore che la Meloni – in competizione aperta con Salvini – punta a sua volta ad aggregare e influenzare, avendo come primo banco di prova le prossime elezioni politiche. 
Si tratta di un orizzonte temporale breve per un’operazione a suo modo ambiziosa, che punta al consolidamento di una destra nazional-conservatrice (nei fatti e nei comportamenti, non solo nella formula) quale in Italia non è mai esistita su vasta scala, se si esclude l’esperienza di Alleanza nazionale all’interno della quale la Meloni ha non a caso maturato parte importante del suo percorso politico-istituzionale. La parola c’è, per una volta non scelta dagli altri: “conservatori”. Aspettiamo la cosa.

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