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MARIO DRAGHI

Spese, non tagli/ I due Mario e lo slogan bugiardo dei detrattori

Spese, non tagli/ I due Mario e lo slogan bugiardo dei detrattori
Articolo riservato agli abbonati
5 Febbraio 2021 (Lettura 4 minuti)

C’è tecnico e tecnico. Competente e competente. Élite ed élite. Ecco perché Draghi non è Monti. Fioccano i paragoni tra i due Mario, ma sono assolutamente fuorvianti. Innanzitutto è diversa la provenienza: Monti è un professore, che pure aveva fatto il commissario Ue prima di arrivare a Palazzo Chigi; Draghi in tutto il suo cursus honorum ha sempre ricoperto cariche, in Italia al ministero del Tesoro fin dai tempi di Goria (governo Andreotti, un secolo fa) e poi tutto il resto fino al vertice di Banca d’Italia, molto politiche. Il suo governo, infatti, si annuncia come un governo a forte caratura politica. Ma rispondente alla visione e alla cultura particolare di Draghi. Che è questa: pur consapevole che anche tra i politici possono esservi persone apprezzabili, egli considera i vincoli e le necessarie inclinazioni partigiane della politica estranei alla sua idea di missione pubblica e alle valutazioni e ragioni che devono ispirarne l’esercizio. 

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E comunque: il paragone Monti-Draghi non regge neppure un po’ - e anche ai piani alti del Pd quelli che sul premier incaricato continuano a nicchiare ma non hanno il coraggio di farlo apertamente farebbero bene a togliere dal piatto questa falsa simmetria - perché sono assai diversi i contesti storici. L’incarico a Monti serviva nel 2011 ad arginare la rincorsa dello spread schizzato a 560. Mentre il governo Draghi è necessitato dal collasso dei partiti, incapaci di cogliere il momento e di interpretare nei fatti il bisogno dell’Italia di ripartire in discontinuità e con forza dopo la pandemia e di costruire adesso, con professionalità e lungimiranza, il futuro sanitario, economico e sociale del Paese. La deriva nichilista dei partiti ha prodotto il ricorso a Draghi. 

E se il primo Mario arrivò in chiave anti-spread e per tagliare la spesa pubblica (come da richiesta europea e ai vertici della finanza continentale c’era Draghi alla Bce), il secondo Mario può contare su 209 miliardi di euro da investire per la crescita (altro che austerità: sviluppo! Ma all’insegna di un rigore vero e non dogmatico) e l’entità del bazooka, per usare un termine alla Draghi, è facilmente comprensibile con questa cifra: il famoso Piano Marshall (1948-1951), che consentì la ricostruzione post-bellica, equivaleva nel suo complesso a 89 miliardi di attuali euro. Meno della metà di quelli stabiliti dal Recovery Fund.

Il non ci vengano a chiedere di votare il nuovo Monti, slogan che echeggia in certi angoli del Palazzo per lo più tendenza 5 stelle, risulta propagandisticamente inservibile. E assai nocivo per le sorti di una nazione che ha l’urgenza di ripartire sulla scorta della competenza e dello sguardo lungo al posto dei personalismi e delle ideologie inservibili e paralizzanti. Draghi non è e non sarà mai un Monti perché il suo approccio è completamente differente e ha una conoscenza dell’intero mondo istituzionale e della macchina statale e ministeriale - c’è molta Roma nell’ex numero uno della Bce - che l’altro Mario si faceva vanto di non avere. Facendo dell’alterità alla Capitale un punto di forza quando invece risulta un handicap grave per chiunque voglia governare. A Monti veniva rimproverata, da chi sapeva guardare bene, una spocchia milanese anti-Palazzo che la Capitale ovviamente non merita e a non meritarla è il Paese di cui questa città è guida e sintesi. 

Ancora. Per Draghi il debito non è il male assoluto: c’è «debito buono e debito cattivo», ha detto la scorsa estate al Meeting di Rimini. Si tratta di un’affermazione non da poco e che segna una discontinuità, resa obbligata del resto dal momento in cui viviamo. L’importante è che i partiti capiscano almeno questo. E se ci sono - o stanno per arrivare se siamo capaci di presentare un piano ambizioso, dettagliato e all’altezza della sfida, ovvero tutto nuovo e diverso da quello lasciato in eredità dal governo uscente - i soldi da investire, non c’è governo che lo possa fare meglio del governo dei migliori. O che comunque sia rappresentato al suo vertice da una figura di riconosciuta qualità ed esperienza.

Naturalmente, mettere in campo finanziamenti e distribuirli in progetti crea più divisioni e più appetiti politici ed elettorali rispetto al non avere soldi da dare e poter quindi respingere le richieste dicendo non c’è niente per nessuno. Questa è una difficoltà per Draghi che Monti non aveva. Partiti distrutti, per propria incapacità e scarsa aderenza alla realtà e alla vita vera, non demorderanno troppo dalle loro pretese. Ma un senso alto della politica, e una solennità del ruolo del premier da ripristinare anche attraverso una comunicazione istituzionale puntuale e al servizio dei cittadini e non dell’auto-referenzialità del sottobosco partitico e mediatico, saranno sperabilmente lo strumento per arginare l’assalto alla diligenza. 

Altri politici e altri tecnici non hanno saputo rappresentare i bisogni del Paese, chi per eccesso di demagogia e chi per eccesso di lontananza, ma adesso è evidente che solo un approccio davvero illuminato e pragmatico è quello in grado di farci uscire dalla crisi «di proporzioni bibliche causata dalla pandemia» (copyright Draghi). E non c’è tempo da perdere se si vogliono difendere, ma anche cambiare, i posti di lavoro; se si vuole evitare il fallimento delle imprese, anzi rilanciarle nel mondo nuovo; e se si vuole sostenere il reddito delle famiglie, come finora non è stato fatto.

Ultimo aggiornamento: 6 Febbraio, 00:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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