Alessandro Campi
Alessandro Campi

Danni collaterali/ Le macerie mai rimosse dell’inchiesta Mani pulite

di Alessandro Campi
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Venerdì 18 Febbraio 2022, 00:00

Craxi dietro le sbarre? “Pensiero stupendo” titolò nel 1992 il settimanale satirico “Cuore”. Il direttore dell’epoca, Michele Serra, oggi si dice pentito, a conferma che nella cattolicissima Italia il pentimento resta la via maestra per conquistarsi il Paradiso in terra. Non le buone azioni, ma l’ammissione in pubblico di averne commesse di cattive. La coscienza è salva, l’immagine pure. Non si vuole fare la morale a nessuno, soprattutto a quelli che per anni l’hanno fatta agli altri, ma solo ricordare quale fosse il clima sociale e ideologico di quegli anni che oggi tutti stanno ricordando: feroce, canagliesco, settario, pieno anche di paura e rabbia (ci furono, accanto alle inchieste, anche le stragi di mafia), ma con una punta di allegra incoscienza riguardo i possibili esiti di quelle vicende che poi abbiamo pagato a caro prezzo. Quando partì, Mani Pulite doveva essere una rivoluzione liberatoria di molti mali: i politici corrotti, la partitocrazia, le solite facce al potere. Fu invece l’inizio di una slavina che alla fine, oggi possiamo ben dirlo, ha travolto e danneggiato tutti: ladri e onesti, politici e magistrati, giornalisti e imprenditori, Palazzo e Cittadini. L’Italia di allora era certamente infetta (“Povera patria”, cantava Battiato già nel 1991, “schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore”), quella di oggi – e non c’entra la pandemia – è una malata cronica che non riesce a guarire. 

Non c’è stata insomma alcuna redenzione o catarsi. L’errore, probabilmente, fu di cedere all’inganno ideologico di quel populismo che poi ci ha, non per caso, travolti anche elettoralmente: i pochi cattivi (i politici) e i molti buoni e innocenti (la società civile, il popolo). Ma fu anche di immaginare che, grazie alla virtù di pochi eletti, in quel caso un manipolo di magistrati integerrimi e di cronisti coraggiosi che li fiancheggiava, fosse possibile guarire i mali d’un sistema di potere che si voleva integralmente basato sul malaffare. Un sistema che andava smantellato pezzo per pezzo usando le armi offerte dalla legge e ricostruito ex novo basandolo sull’onestà e la trasparenza. Ma ne derivò, ahinoi, una distruzione senza ricostruzione, un rivolgimento radicale senza un’idea concreta del “mondo nuovo” che si intendeva realizzare. Il moralismo applicato alla politica e alla società cade sempre in questa trappola: si ferma ai buoni propositi senza chiedersi cosa fare per realizzarli e se possono essere realizzati.

Elettoralmente con Tangentopoli si produsse un paradosso persino divertente: gli eredi politici del Berlinguer della “questione morale” furono malamente sconfitti da Berlusconi, un antico sodale di Craxi messosi abilmente a capo del vento moralizzatore alimentato dai media che possedeva, salvo diventare egli stesso, di lì a poco, un bersaglio costante di inchieste, indagini e processi. Al tempo stesso, con l’idea un po’ puerile e antistorica di perseguire una politica finalmente buona e pulita, si ingenerarono degli effetti collaterali di cui ancora oggi sperimentiamo le conseguenze nefaste: la delegittimazione della politica in quanto tale; l’istituzionalizzazione (da Berlusconi a Grillo, da Di Pietro alla Meloni) del populismo anti-casta; il protagonismo politico-mediatico di pezzi consistenti della magistratura; la disarticolazione del sistema dei partiti e delle culture politiche che li sostenevano; la ricerca che da quel momento non s’è mai fermata del periodico salvatore della patria (da Ciampi a Draghi); la crescente perdita di ruolo internazionale dell’Italia; l’indebolimento del suo tessuto economico-produttivo nazionale a beneficio dello straniero di machiavelliana memoria; la rinuncia del Paese a investire, innovare e modernizzare proprio nei decenni in cui il mondo si è messo a correre sempre più veloce.
Nel dire questo si passa per nostalgici della Prima Repubblica e per involontari giustificatori di un modello politico nel quale, come ammise Craxi tre mesi dopo l’arresto di Mario Chiesa, all’inizio liquidato come un “solitario mariuolo”, il finanziamento illegale ai partiti era una prassi consolidata e dunque un fattore d’inquinamento dell’intera vita economica e sociale. 

Ma non è così.

Nessuno rimpiange le tangenti date ai partiti di massa per sostenere i loro apparati e le loro vetuste visioni ideologiche. Visto però che tutti oggi invitano a storicizzare e mettere in prospettiva quegli eventi, si tratta appunto di questo: riconoscere, trent’anni dopo, che Mani Pulite ha largamente deluso le aspettative che aveva creato, se è vero – un vero paradosso – che la corruzione da allora, per ammissione di chi all’epoca l’ha combattuta, ha solo cambiato forme e modalità, anzi sembra essersi aggravata come fenomeno. Nata come inchiesta giudiziaria a partire da casi di malaffare persino marginali, Mani Pulite ben presto s’è risolta in un conflitto tra apparati dello Stato, alla ricerca di nuovi equilibri di potere dopo la fine di quelli nati nel dopoguerra, e in un illusorio psico-dramma collettivo. 

I magistrati si posero come i vendicatori senza macchia dei cittadini che li applaudivano per averli liberati dopo decenni di insopportabili angherie. In realtà, era semplicemente finito un quadro geopolitico – quello della Guerra fredda – all’interno del quale l’Italia era, al tempo stesso, la pedina più esposta e quella più debole, quella più storicamente alle mercé degli interessi delle potenze straniere, comprese quelle alleate, che da decenni già si combattevano sul suo suolo. I magistrati diedero solo la spinta ad un sistema che nessuno dall’esterno aveva più interesse a puntellare e del quale gli italiani erano stati, altro che vittime, semmai complici e beneficiari. Tutto crollò e tra quelle macerie ancora oggi ci muoviamo.

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