Alessandro Campi
Alessandro Campi

L'analisi/ Asse Lega-M5S, la legislatura finisce come era cominciata

di Alessandro Campi
6 Minuti di Lettura
Giovedì 21 Luglio 2022, 00:09

Una giornata drammatica. Come se ne ricordano poche nella storia parlamentare italiana. Era cominciata con un discorso di Draghi deciso e assertivo: un “prendere o lasciare” rivolto all’intero Parlamento considerate le gravi emergenze che incombono sull’Italia. Un invito esplicito a rinnovare il patto politico che aveva portato nel febbraio 2021 alla nascita dell’esecutivo di unità nazionale voluto dal Presidente Mattarella.
È finita, dopo una discussione drammatica, con un espediente bizantino di quelli consentiti dai regolamenti parlamentari: il ricorso alla figura, ) sin qui ignota ai più, dell’assente-non votante. Non votare senza far mancare il numero legale. Lega, Forza Italia (al rimorchio della Lega) e M5S si sono sfilati definitivamente dalla maggioranza, ma non si sono voluti prendere la responsabilità diretta della loro scelta dinnanzi agli italiani. Paradossalmente è stato anche un modo per riconoscere la statura di Draghi e l’eccezionalità della sua esperienza politica: non si è avuto il coraggio politico di un esplicito voto contrario in aula.

Una crisi pazza, quella terminata ieri, persino dal punto di vista formale. Draghi si era dimesso lo scorso 14 luglio avendo appena ricevuto un voto di fiducia sul Decreto Aiuti. Il suo governo è finito ieri avendo nuovamente ricevuto una fiducia che tecnicamente si definisce di minoranza. Ma questa è forma; la politica, come si è visto, è un’altra cosa. Nel caso italiano, un misto di avventurismo e calcolo di bottega, un gioco di potere senza più regole. 

Una crisi innestata formalmente dal M5S e motivata dal desiderio di questo partito, persino legittimo, di affrontare le prossime elezioni da forza di opposizione, per cercare di recuperare consensi dopo le ripetute batoste elettorali. Ma curiosamente ieri di Conte e delle fibrillazioni in casa grillina, delle loro intenzioni e delle loro mosse, nessuno si è occupato. All’esito estremo si è arrivati, un po’ inaspettatamente, per volontà del centrodestra. E’ prevalsa in Salvini e Berlusconi (pressati dalla Meloni) la voglia di andare al voto avendo sondaggi favorevoli ormai da mesi.
Anche se quello che potrà accadere nei partiti e nella geografia politica del Paese, dopo il bailamme visto ieri, è tutto da vedere. Potrebbero esserci smottamenti interni e ricomposizioni tra blocchi. Ieri ne abbiamo avuto alcune avvisaglie, soprattutto nel campo moderato. Lo scontro tra la berlusconiana ortodossa Licia Renzulli e il ministro berlusconian-draghiano Mariastella Gelmini, con la decisione di quest’ultima di lasciare Forza Italia. E poi la polemica dissociazione in aula del forzista Andrea Cangini, che ha accusato il suo partito di essersi piegato al diktat leghisti. Ma molto altro potrebbe accadere, mentre già ieri - sui banchi del Senato - è cominciata la campagna elettorale.

Una crisi deflagrata ieri ma iniziata in realtà parecchi mesi fa. Qualcosa si era rotto nel rapporto tra Draghi e i partiti, anche sul piano personale, già all’epoca delle votazioni per il Quirinale. All’epoca, si ricorderà, Draghi aveva dato la sua disponibilità per il prestigioso incarico e aveva dichiarato sostanzialmente terminata la sua missione in veste di risanatore. I partiti che ieri hanno bruscamente chiuso la sua esperienza a Palazzo Chigi sono gli stessi che nell’ottobre dello scorso anno non lo hanno voluto al Colle. In questa doppia scelta si può vedere una sorta di perversa coerenza. Mentre lo lodavano pubblicamente come il migliore, i partiti non hanno mai smesso di temerlo e di pensare a come liberarsene, anche quando invocavano in pubblico l’interesse generale da salvaguardare proprio grazie a Draghi. 
Ciò detto, bisogna anche chiedersi se nella gestione di questa turbinosa vicenda non abbia sbagliato qualche mossa lo stesso Presidente del Consiglio.

A partire dal tono e dai contenuti del suo discorso di ieri mattina. Bisognava ricomporre e smussare, pur nella fermezza delle posizioni. Ma così non è stato. Non ci si riferisce tanto agli schiaffoni alla Lega e all’eccessiva indulgenza nei confronti di un Pd che da quando è nato l’esecutivo di unità nazionale non ha fatto altro che tentare di politicizzarlo a sinistra con esiti al dunque maldestri. Quanto all’aver troppo giocato alla volontà dei cittadini contro i partiti: la richiesta di coesione dei primi contro le indecisioni e la litigiosità cronica dei secondi, secondo un cliché pseudo-populista che a Draghi non si addice.

Ma è parso anche scivoloso l’argomento che un Presidente del Consiglio non eletto ed estraneo ai partiti per governare e risultare credibile abbia bisogno di una maggioranza larghissima: proprio l’esperienza del suo governo insegna infatti che la qualità conta più della quantità. Per decidere bene, stando a Palazzo Chigi, serve una maggioranza coesa e leale, non un’accozzaglia vasta e indisciplinata. E’ parso poi che Draghi - dicendo in aula «sono qui perché me lo hanno chiesto i cittadini con i loro appelli» - abbia voluto invocare una sua legittimità e una sua autonoma forza superiore a quella che il Parlamento avrebbe dovuto assegnargli attraverso il voto di fiducia. E’ finita malamente nel modo che abbiamo visto, con quello che potrebbe anche essere considerato un riflesso autodifensivo di partiti che si sono sentiti troppo messi all’angolo e sotto accusa.

E ora? Ci tratteranno come la Grecia, ha profetizzato qualcuno. Ci aspetta la “tempesta perfetta”, secondo il vaticinio a caldo di Paolo Gentiloni. Di certo rischiamo molto, senza Draghi a fare da scudo, sul piano economico-finanziario e sociale, anche se è probabile che Mattarella, pur sciogliendo subito le Camere, gli chieda almeno di occuparsi della prossima legge di bilancio (anticipandola) per evitare lo spettro dell’esercizio provvisorio.

Dovrebbe tuttavia essere chiaro, dopo quello che è successo ieri, che la vera emergenza italiana, ormai da decenni, è quella politico-istituzionale. Pandemia, Pnrr, guerra, crisi energetica, inflazione, rincaro dei prezzi: non sono mali specifici del nostro Paese, ma comuni all’intera Europa. Di nostro, oltre un debito pubblico altissimo con il quale una nazione strutturalmente solida può comunque convivere, abbiamo un sistema politico e dei partiti allo sfascio. Se non cambiamo questo sistema, non c’è Salvatore che possa salvarci. 

A questo punto si apre il problema del lascito di Draghi. Chi erediterà il suo consenso che tra gli italiani è stato sempre molto alto in questi mesi, ammesso sia possibile trasmetterlo a qualcuno? Si è molto fantasticato in questi mesi sul “partito di Draghi” e, in subordine, sulla “agenda Draghi”. Ora che il diretto interessato esce di scena, che faranno i suoi estimatori per tenerne viva l’esperienza? L’impressione è che il draghismo senza Draghi non vada molto lontano. 
Un’ultima cosa. Questa legislatura finisce come è cominciata: con un asse giallo-verde. All’inizio leghisti e grillini fecero un governo che però non ebbe molta fortuna. Ieri, dopo molte vicissitudini, si sono presi, sembrerebbe, la loro rivincita o vendetta. A danno dell’Italia e degli italiani, ma questo è un dettaglio.

© RIPRODUZIONE RISERVATA