Gianfranco Viesti
Gianfranco Viesti

L’Italia Centrale/Servizi e atenei per far ripartire prima il Paese

L’Italia Centrale/Servizi e atenei per far ripartire prima il Paese
di Gianfranco Viesti
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Venerdì 16 Aprile 2021, 02:02 - Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 03:11

La discussione in corso sulle pagine di questo giornale sul “declino” del Centro Italia è della massima importanza: perché non si tratta di un fenomeno congiunturale ma in larga misura strutturale; che va affrontato con decisione, specie in tempi di Piano di Rilancio. Per capire che cosa è prioritario fare, è bene riflettere sulle cause di questo significativo declino.


Gran parte del Centro Italia ha sperimentato in misura più intensa delle difficoltà incontrate dall’intera Italia in questo secolo. Chiariamo subito: non ha alcun senso dire che il Centro si è meridionalizzato. I livelli di sviluppo economico e civile, le presenze produttive e le reti di servizi restano ben migliori di quelle del Sud, con l’Abruzzo in posizione di cerniera. 


Ma le dinamiche dell’ultimo ventennio sono state in diversi casi simili se non peggiori: il dato simbolo è lo scivolamento del reddito pro-capite umbro al di sotto di quello abruzzese. E se la persistenza delle difficoltà di sviluppo del Sud pesa molto, il declino di territori abituati ad una condizione ben migliore può essere altrettanto se non più pericoloso. Perché stanno sperimentando (come altre aree europee) l’interruzione di un percorso di sviluppo, un peggioramento relativo, una relativa mancanza di prospettive di futuro.


Quanto è avvenuto è frutto di dinamiche non favorevoli dello scenario internazionale e di una mancanza di reazione con adeguate politiche pubbliche. Fra le prime certamente l’impatto delle importazioni asiatiche e la concorrenza localizzativa dei Paesi dell’Europa centro-Orientale, ma anche la diffusione delle nuove attività di servizio a matrice digitale (nelle quali tutto il nostro Paese è rimasto indietro) e la crescente importanza dell’innovazione tecnologica nei prodotti e nei servizi. Fra le seconde i lunghi anni di austerità e di compressione della domanda interna, ma anche la mancanza, per tanti anni, di politiche di sviluppo del capitale materiale (infrastrutture) e immateriale (istruzione, ricerca diffusione tecnologica). Esito ne è stata la scomparsa di molte attività industriali. Ma la patologia non sta tanto in quel fenomeno, quanto nel mancato sviluppo di nuove attività, manifatturiere e soprattutto di servizio, in grado di sostituirle. Come invece avvenuto nelle regioni e nelle città europee di maggiore successo.
Il Centro-Nord si è molto differenziato.

Se il triangolo Milano-Bologna-Treviso ha reagito meglio, ma sempre con risultati molto inferiori alle aree europee comparabili, il vecchio Nord-Ovest, in Liguria e in vaste parti del Piemonte, è rimasto indietro. Al Centro, migliore è stata la risposta della parte settentrionale della Toscana, specie da Firenze a Pisa; peggiore sul versante centro-adriatico: nelle Marche, in Umbria, in aree non piccole di Toscana e Lazio. Roma fa storia a sé, e merita un discorso a parte, anche per il fortissimo impatto della contrazione dell’occupazione pubblica. 


Nel Centro Italia indebolito si sono ridotte le tradizionali attività industriali, nei beni di consumo ma non solo (si pensi agli elettrodomestici) e non sono sorte imprese e produzioni in grado di sostituirle.
Perché? Per una specializzazione produttiva non favorevole: al Centro c’è molta meno produzione di quella meccanica specializzata e di quella componentistica avanzata che è l’ossatura industriale di Milano-Bologna-Treviso. Per una ridotta capacità di introdurre innovazione in misura più ampia nelle imprese e nei prodotti. Per la relativa debolezza del suo tessuto urbano che, al netto di Firenze e Roma, è fatto di medie città poco integrate e collegate fra loro, e quindi per la relativa carenza di nuove imprese nei servizi avanzati. E per le specifiche difficoltà, anche demografiche e nei servizi pubblici, delle aree interne appenniniche. Il terremoto ha acuito difficoltà pre-esistenti.


Se così è, un menu delle priorità di sviluppo non è difficile da stendere, quantomeno nelle sue linee generali. Una dose molto, ma molto maggiore di ricerca, innovazione e diffusione delle tecnologie, con un ruolo centrale della vasta rete universitaria di cui l’aerea si giova e che è stata invece mortificata dalle politiche dell’ultimo decennio (e di cui si sente auspicare addirittura un potenziamento, che sarebbe esiziale); un rafforzamento del suo tessuto urbano, ancora di elevata qualità, con programmi integrati (e non con interventi puntuali, staccati) proprio legati alle transizioni verde e digitali che dovrebbero costituire il nerbo del Piano di Rilancio. 


Un forte potenziamento delle connessioni fra le medie e piccole città, specie lungo gli assi Ovest-Est, da sempre trascurati nell’Italia sotto Bologna: potenziamento che richiede tanto ammodernamento tecnologico e realizzazione di nuove reti ferroviarie quanto un potenziamento quantitativo e qualitativo dei servizi disponibili (maggiori e migliori servizi di trasporto) fra le città e intorno alle città; i binari da soli non migliorano le cose senza treni. 
Una intensificazione di quelle politiche per le aree interne che si stanno dipanando in maniera positiva in molte aree: potenziando i servizi (salute, istruzione, mobilità) che incidono sulle possibilità di vita dei giovani e le attività economiche legate ai territori. Infine, un rapporto nuovo e più intenso, mutuamente vantaggioso, con Roma come centro di servizi di rilevanza mondiale.


Una chiosa finale. Sostenere questi interventi non significa un “Prima il Centro”, speculare a slogan sul Nord molto ascoltati, espliciti fino a qualche tempo fa e oggi sottotraccia, pronti a concretizzarsi senza far troppo rumore. Significa al contrario sostenere che la vera e propria rinascita di cui l’Italia ha bisogno non si può verificare se non con il contributo di tutti i territori; che concentrare le risorse su ipotetiche “locomotive”, o su quanti si autodefiniscono “migliori” è quanto di più sbagliato si possa fare. 


L’Italia è stata e tornerà ad essere forte proprio perché Paese variegato e multipolare, che sa mettere a valore, con indispensabili politiche pubbliche, tutti i suoi territori.

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