Beniamino Caravita

Interessi di parte/Il senso di sicurezza e i partiti al governo

Interessi di parte/Il senso di sicurezza e i partiti al governo
di Beniamino Caravita
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Venerdì 28 Maggio 2021, 00:03 - Ultimo aggiornamento: 23:39

Come succede quando due belve feroci (ma in realtà anche due tranquilli animali domestici) si incrociano, due partiti della coalizione di governo hanno marcato reciprocamente il terreno della prossima contesa sulla elezione del Presidente della Repubblica, l’uno lanciando il nome del presidente del Consiglio in carica, l’altro non escludendo di chiedere all’attuale Capo dello Stato di rimanere in carica per un ulteriore lasso di tempo. 
Così lanciando un messaggio implicito, in un primo caso di possibile anticipazione delle elezioni politiche alla primavera 2022, nell’altro di tendenziale proseguimento della legislatura sino alla sua naturale conclusione della primavera del 2023. Due nomi impegnativi, due scelte istituzionali altrettanto impegnative, pur se legate ad una prospettiva politica finora comune. 


Se è legittimo palesare qual è l’interesse di partito (e sarebbe da ingenui pensare che non ve siano), delicata sarà la fase in cui questi interessi politici dovranno trovare una conciliazione con l’interesse più generale della collettività nazionale e combinarsi anche con l’interesse comune europeo alla stabilità del nostro Paese. 
È allora opportuno fissare da subito qualche punto fermo, in primo luogo ricordando ai due contendenti e a tutti i partiti che, di fronte alle gravi questioni sostanziali che deve affrontare il Paese, non ci si può logorare per sei mesi sul chiacchiericcio subpolitico intorno alla carica di Capo dello Stato: la Repubblica italiana non può diventare il teatro dello stesso mercato che sta avvenendo intorno alle candidature a sindaco di Roma. 


Va poi sottolineato che due nomi di quel livello, in ragione delle cariche da essi ricoperte, non possono essere bruciati sull’altare delle convenienze di partito. Nella storia italiana, l’elezione del Presidente della Repubblica è stata talvolta una partita snervante, risolta dopo decine di votazioni, altre volte una partita risolta al primo colpo. Seconda regola, allora: per non screditare le nostre istituzioni, specie in una fase in cui ancora stiamo giocando la partita dei finanziamenti in arrivo dall’Europa, non possiamo permetterci di logorare il Presidente della Repubblica uscente o il presidente del Consiglio in carica in una sequenza di votazioni. Se la scelta deve cadere su uno dei due nomi, che ciò avvenga alla prima votazione, frutto di un accordo preventivo.

Terza regola: intorno al presidente del Consiglio in carica si è creata, anche grazie al lavoro del Presidente della Repubblica uscente, un’ampia maggioranza politica, che può in realtà godere anche di una attenzione dell’unica forza rimasta all’opposizione. Una simile situazione ampia di consenso – sempre auspicabile nel caso dell’elezione del Capo dello Stato - non può non riprodursi anche nell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, specie se la scelta dovesse cadere su chi già ricopre cariche istituzionali di cruciale rilievo. 


La rielezione del Presidente uscente non è vietata dalla Costituzione e si è verificata nel caso della rielezione di Napolitano, l’elezione a Capo dello Stato del presidente del Consiglio in carica non è mai avvenuta. Si tratta di scelte legittime, ma al limite della prassi istituzionale: il rispetto di alcune regole di corretto comportamento costituisce il presupposto per non cadere nella irresponsabilità politica, cosa che pensiamo si possa escludere per partiti che hanno a cuore le sorti del Paese. 
In ogni caso, è opportuno rammentare ai contendenti politici che l’attuale situazione italiana ricorda molto quella che si ebbe dopo la seconda guerra mondiale: un’Italia impoverita, desiderosa di riprendersi, ma ancora spaventata e divisa, aiutata da un massiccio aiuto esterno (allora, il Piano Marshall del ’47), anche ieri come oggi sotto le grinfie di un uomo di teatro, Guglielmo Giannini, fondatore di un partito che affermava di non essere né di destra, né di sinistra, vittorioso nel 1946, poi barcollante tra centro, destra e sinistra, e infine dissolto qualche anno dopo, fra scandali e incertezze politiche. 


Allora vinse chi riuscì ad occupare saldamente il centro del sistema politico, dialogando con la destra ma pronto a tendere la mano alla sinistra, dando sicurezze ad un’Italia provata, ma vogliosa di crescere. Chi in quegli anni, anche per insuperabili costrizioni internazionali, sbagliò le mosse, rimase fuori dal potere per un lungo periodo successivo. 
Qualcosa del genere potrebbe succedere anche adesso: chi sbaglia, spaventando il Paese, invece di dargli sicurezze, esasperando gli animi, invece di garantire quella tranquillità sociale che costituisce il presupposto della ripresa economica, rimarrà fuori gioco per i prossimi venti anni.

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