Francesco Grillo
​Francesco Grillo

Oltre l’I.A./ Il controllo del progresso e il futuro del lavoro

di ​Francesco Grillo
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Mercoledì 3 Maggio 2023, 00:11

Cosa rimarrà del lavoro, di quello che è il valore fondante delle società plasmate dalle rivoluzioni industriali dei secoli scorsi, quando – tra non più di dieci anni – l’intelligenza artificiale avrà dispiegato i suoi primi, sostanziali effetti? Il fantasma dell’ultima potente accelerazione della rivoluzione tecnologica che viviamo da alcuni decenni, deve aver agitato le celebrazioni di una festa – il Primo Maggio – che celebra un mondo che sta finendo se non si rinnova radicalmente. Che il mondo del lavoro sia di fronte ad una sfida senza precedenti, è dimostrato dal fatto il Consiglio per il Commercio e la Tecnologia appena costituito da Stati Uniti e Unione Europea dedicò, nel dicembre dello scorso anno e a una settimana dopo il lancio dell’applicazione Chatgpt-3.5, uno dei suoi primi incontri all’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro.

Quel documento ribaltava ciò che si riteneva per acquisito fino a qualche mese fa, quando si discuteva dell’impatto di Internet sull’occupazione. Nel famoso studio dell’Università di Oxford che, nel 2013, cercò di valutare – lavoro per lavoro – quanto ciascuna occupazione fosse suscettibile ad essere automatizzata, si riteneva che a essere messi in discussione fossero le attività routinarie (che processano informazioni secondo schemi prestabiliti, come nei call center), mentre apparivano meno sostituibili quelli che molto utilizzano le mani o i sensi (in cucina, ad esempio); la creatività (ad esempio, dei pubblicitari); e i lavori nei quali conta la vicinanza fisica o affettiva (quella degli insegnanti con gli studenti). 


Non è più così. L’intelligenza artificiale di ultima generazione ribalta ciò, perché riesce a imitare l’uomo. Ed è nell’imitazione del comportamento umano, la vera natura dell’intelligenza di una macchina, come intuì l’inventore dei computer moderni, Alan Turing. La possibilità di comprendere il linguaggio naturale (in maniera molto più articolata degli assistenti digitali di Amazon o Google) aumenta esponenzialmente il numero di problemi alla quale la macchina è chiamata a fornire risposte e, dunque, il numero di problemi che impara a risolvere. La macchina imita sempre meglio l’uomo, ne imita persino la capacità di inventare sbagliando e ciò porta la sfida ad un livello diverso. 


Non sono più al sicuro né i dirigenti (soprattutto quelli non abituati a rischiare), né i medici (anche perché ha la sanità ha tragicamente bisogno di maggiore efficienza). Ha ragione il rapporto di Talent Garden a ricordare che in Italia mancano migliaia di esperti di digital marketing e di programmatori: il problema è che perdurando tale carenza, le imprese avranno un ulteriore incentivo a sostituire tali figure con un robot. Ed è chiaro che in un contesto nel quale persino la natura dell’impresa è in discussione – il lavoro a distanza è ormai diventato un diritto nuovo – saltano gli stessi schemi delle relazioni industriali.


Tre le risposte che dobbiamo riuscire ad elaborare.

Innanzitutto, dovremo riuscire ad usare l’inevitabile riduzione della quantità di lavoro che le tecnologie progressivamente inducono, in maniera da liberarci dalla fatica senza aumentare diseguaglianze che già stanno frantumando società fragili. Il fenomeno non è nuovo e i tassi di occupazione a livello globale sono da tempo in diminuzione, così come lo è il numero di ore lavorate per occupato. Come nel passato, occorrono politiche che facciano dell’aumento della produttività che la tecnologia abilita, la leva per aumentare gli investimenti in attività nuove (nei prossimi anni, c’è da completare una colossale trasformazione degli apparati produttivi per diminuirne l’impatto ambientale) e per finanziare un nuovo modello di welfare capace di rispondere domande di protezione nuove.


In secondo luogo, bisognerà investire nelle competenze necessarie a creare lavori nuovi. Esso sono quelli nei quali la macchina non potrà mai sostituire l’uomo. Il robot non pensa infatti, e si limita a imitare i nostri processi cognitivi. Mai potrà sentire emozioni e persuaderci, anche se talvolta potrà farci sorridere. In pratica, per salvarci da una progressiva obsolescenza tecnologica, dovremo investire ancora di più in ciò che rende umani. 
Se continuassimo noi a imitare le macchine, ragionando in maniera politicamente corretta e cercando di escludere dalla nostra vita le passioni, diventeremmo inutili. È a scuola e persino sui libri di filosofia e matematica, che si gioca la partita più importante.


In terzo luogo, in un mondo nel quale molto più rapida diventa la liberazione dal bisogno, bisognerà evitare che un eccesso di energia non utilizzata possa, come intuiva Keynes, spingere le persone a perdere senso del proprio ruolo e le società a diventare pericolosamente pigre. L’impegno nel volontariato, nella protezione di debolezze che i computer non faranno sparire, può essere una chiave di futuro. L’errore più grande che possiamo fare è però immaginare che possiamo fermare un progresso così veloce arroccandoci nella difesa retorica di una stabilità che non c’è più. Il ricordo delle lotte che servirono in un’altra epoca a superare l’insostenibile frattura tra chi traeva enorme profitto dalle macchine e da chi, invece, ne era schiacciato, deve servire a recuperare intelligenza. E quell’istinto alla sopravvivenza che sembriamo aver smarrito di fronte ad una complessità che fummo noi a costruire.


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