Francesco Grillo
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Politiche obsolete/ Se le banche centrali non fermano l’inflazione

di Francesco Grillo
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Martedì 21 Marzo 2023, 00:03

Nella “Casa di Carta”, la serie che ha reso Netflix il più potente concorrente di televisioni e case cinematografiche, il Professore che guida l’azione spettacolare che ha l’obiettivo di stampare un miliardo di euro, fornisce un valore morale a quello che è un furto. Parlando con l’ispettrice di polizia che se ne innamora inseguendolo, gli spiega che, in fondo, con i suoi complici stava ripetendo quello che fanno le banche centrali. Creare moneta dal nulla, facendo atterrare però meglio dei banchieri il denaro nelle tasche delle persone reali. Quel dialogo contiene qualche errore significativo e, tuttavia, oggi il dubbio rimane: le banche centrali sono ancora capaci di controllare l’inflazione? 


A dir la verità, i dubbi sulla reale efficacia degli strumenti che le Banche centrali hanno a disposizione per centrare i propri obiettivi sono cominciati quando fu loro chiesto di andare oltre il proprio mandato per salvare il sistema: con la crisi finanziaria del 2008, che costrinse la Federal Reserve americana (Fed) a salvare le banche private; e quella del debito sovrano del 2011, quando Mario Draghi fece della Banca Centrale europea (Bce) l’argine che avrebbe protetto l’euro. Dal 2009 fino al 2015 la Fed e la Bce iniettarono nel sistema 5 mila miliardi - una quantità di moneta che vale tre volte il Pil dell’Italia - triplicando la dimensione dei propri bilanci.
 

E tuttavia il paradosso è che se prima di questa colossale operazione l’inflazione era attorno al 4% (nel 2009), essa era scesa sotto lo zero quando l’iniezione si concluse nel 2015. Contraddicendo ciò che studiamo nei volumi del primo anno del corso di laurea di economia, perché ad un aumento della quantità di moneta dovrebbe conseguire un incremento dell’inflazione. E non la sua scomparsa. Il paradosso è di grande rilevanza perché se dovessimo accorgerci che l’inflazione non è più controllabile dalle banche centrali, ciò metterebbe in discussione la legittimità stessa di istituzioni che vivono per tenere sotto controllo l’inflazione.


Oggi la situazione è opposta a quella vissuta dieci anni fa, ma il paradosso si ripete. L’inflazione non è troppo bassa ma è diventata improvvisamente troppo elevata e le banche centrali sembrano ugualmente impotenti: la Bce ha aumentato il tasso d’interesse sei volte dal luglio scorso ed è arrivata al 3,5%; l’inflazione è continuata però a crescere fino a novembre (10,6%) per ridursi ad un livello a febbraio (8,5%) che è ancora quattro volte superiore a quello (2%) sotto il quale la Bce deve tenerci per statuto.  Ancora più sconcertante è il fatto che la piccola diminuzione dell’inflazione negli ultimi quattro mesi è stata per intero determinata dalla riduzione nel prezzo dell’energia di cui abbiamo beneficiato dopo aver superato indenni le minacce di Putin.

Mentre invece il prezzo dei beni e servizi prodotti internamente, che sono maggiormente influenzati dalle politiche monetarie, continuano ad aumentare.


Fu lo stesso Parlamento europeo a commissionare nel 2015 un rapporto che si intitolava, non a caso, “Ha la globalizzazione ridotto la capacità delle banche centrali di controllare l’inflazione?”. In realtà è appunto l’integrazione progressiva dei mercati dei beni e dei capitali, nonché la tecnologia, ad avere (quasi) ucciso le politiche monetarie. I prezzi scendono grazie ai computer che consentono aumenti della produttività; e salgono se il mondo fa retromarcia e spezza le catene attraverso le quali si trasferiscono più elevati livelli di efficienza. E sempre meno per le decisioni che Jerome Powell e Christine Lagarde comunicano periodicamente. 
Peraltro, tale trasformazione sarà ulteriormente accelerata quando le tecnologie riusciranno a trovare alternative accettabili al monopolio degli Stati sulla creazione di moneta.


Le conseguenze di tale novità sono fondamentali. Potremmo infatti scoprire che stiamo prendendo medicine scadute rispetto ad un virus che ha subito una mutazione che non abbiamo ancora studiato. E dunque che rischiamo una crisi finanziaria che avremmo potuto evitare.  L’alternativa è quella che lo stesso rapporto del Parlamento europeo indicava: studiare meglio come certe tempeste finanziarie si formano, andando oltre modelli macroeconomici che hanno perso validità; modificare gli obiettivi delle banche centrali rendendoli più flessibili e realistici (concentrandoci sull’inflazione domestica, ad esempio); assumere orizzonti temporali meno schiacciati sulla cronaca dei giornali; coordinarsi con le banche centrali dei colossi asiatici – Cina, India – che pesano sempre di più.


Fu l’inventore delle politiche monetarie moderne, il premio Nobel Milton Friedman a proporre di sostituire ai banchieri centrali un computer che variasse le quantità di moneta senza alterare il funzionamento dei mercati. Se continuiamo a usare vecchi strumenti per fenomeni che stanno cambiando pelle, rischieremo tragici effetti collaterali. E di rendere obsolete le istituzioni alle quali affidiamo quel poco di stabilità che ci è rimasta.

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