Francesco Grillo
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Scenari futuri/ Il colosso indiano e le opportunità da cogliere adesso

di Francesco Grillo
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Martedì 24 Maggio 2022, 23:59

È l’unica grande economia del mondo che nel 2022 e nel 2023 continuerà a crescere a ritmi superiori al 7% (la Cina non riuscirà ad arrivare al 5% e l’Europa rischia di vedere trasformato in recessione il grande rimbalzo promesso dal Next Generation EU). Per numero di Unicorni (le start up non quotate di valore superiore a un miliardo di dollari che stanno cambiando il mondo) è al terzo posto in una classifica dominata da Stati Uniti e Cina. E, a proposito di grandezza, l’India sta superando la Cina: secondo le Nazioni Unite entro il 2027 sarà – con un miliardo e mezzo di cittadini – il Paese più popoloso del mondo. 


Infine, l’India può essere un caso che lo stesso ministro della Transizione tecnologica, Vittorio Colao, può osservare con interesse: è stato da un programma di modernizzazione digitale realizzato dal governo indiano che sono partite le innovazioni che stanno portando l’India ad essere, secondo l’Economist, il motore di crescita che può sostituire la Cina. E, tuttavia, l’Europa è molto indietro per rapporti politici e commerciali con quello che è un continente che sta correndo.


Quando, nel 2002, a chi scrive capitò di arrivare per la prima volta all’aeroporto di Nuova Delhi, il primo impatto con l’India fu dato dalla necessità di prelevare in rupie – la moneta nazionale – l’equivalente di 1000 euro necessarie a pagare la prima parte dell’esplorazione di un mondo fantastico. L’utilizzazione delle carte di credito e persino i bancomat erano marginali e, peraltro, i viaggiatori si vedevano consegnare dagli uffici di cambio valute una quantità di banconote di piccolo taglio difficile da contenere nel bagaglio.  Parte del fascino che l’India esercitava sugli occidentali era legato al fatto che era un Paese immerso in un medioevo fatto di povertà spettacolari e affascinanti intuizioni. Centinaia di milioni di indiani tecnicamente non esistevano, nel senso che sfuggivano a qualsiasi registrazione (fatto salvo per un faticoso censimento periodico). Lo stesso valeva per milioni di microimprese di un’economia sommersa e mai raggiunta da un sistema di tassazione reso complicato da una miriade di balzelli decisi da ciascuno dei 28 stati federati e 8 territori nei quali è divisa l’Unione. 


Oggi l’India è un Paese completamente diverso e, probabilmente, può essere – proprio come la Cina – la rappresentazione di quanto nel ventunesimo secolo, per la crescita di un Paese sia decisivo un impulso iniziale di uno Stato che si faccia “imprenditore” (nel caso di India e Cina, bisognerebbe però chiamarlo “innovatore”). Anche se risulta inquietante la circostanza che in India, così come in Cina, quell’innovazione iniziale sia arrivata da uno Stato che si sta allontanando dagli standard delle liberal democrazie. 
In India è stato il premier Narendra Modi ad aver sostenuto la continuazione di una modernizzazione che era cominciata, però, con il suo predecessore e avversario politico, l’economista Manmohan Singh.

Fu Singh ad introdurre nel 2009 un sistema di identificazione dei cittadini (si chiama Aadhaar) che lega i dati anagrafici a quelli biometrici – impronte digitali e foto dell’iride – e che ha portato un’immensa società sommersa ad avere uno dei sistemi anagrafici più tecnologicamente evoluti del mondo. 


È stato, però, Modi a proseguire l’opera agganciando a quel sistema altre modernizzazioni che la tecnologia rendeva possibile: una robusta riduzione del contante e lo sviluppo di un sistema di pagamenti nazionale; la creazione di una infrastruttura digitale in grado di raggiungere le campagne; la costruzione di un sistema di welfare capace di trasferire indennità di disoccupazione direttamente sul conto corrente di centinaia di milioni di persone; la semplificazione e centralizzazione del sistema fiscale. Su queste basi l’India sta creando grandi opportunità per le proprie imprese ed i propri ingegneri e trasferendo risorse da imprese microscopiche a multinazionali più efficienti. 
Trent’anni fa, l’economia indiana era – anche se povera – grande come quella cinese; dopo trent’anni è cinque volte più piccola. Da qualche anno, il trend si sta però invertendo. 


Adesso l’opportunità è di sostituire la Cina nel fornire all’Occidente pezzi di catene di produzione di maggiore valore. Il paradosso è però che oggi l’India sembra assomigliare di più al proprio grande vicino. Il think tank Freedom House, che misura i livelli di libertà nei diversi Paesi del mondo, ne registra una riduzione sensibile in un Paese nel quale si accentuano i caratteri etnici del potere (e le discriminazioni delle minoranze islamiche). La stessa grande innovazione dell’identità elettronica introdotta tredici anni fa, sarebbe tecnicamente impossibile in molti Paesi occidentali: in particolar modo, nell’Europa che con i propri regolamenti sui dati personali (Gdpr) ha dato alla “privacy” una priorità maggiore di quella assegnata alla crescita e alla semplificazione dei rapporti tra Stato e cittadino.


In Asia sono in atto le trasformazioni che determineranno buona parte del futuro di tutti. Un futuro che si sta spostando da Pechino verso Bangalore. Le esportazioni in India, però, rischiano di essere l’ennesimo treno che rischiamo di perdere noi europei ed italiani. L’Europa deve riuscire a concepire una strategia che sia commerciale e anche politica. Fondamentale per riuscirci è, però, superare la sindrome che ci porta a preoccuparci del mondo solo quando ci entra in casa dallo schermo di una televisione. La nuova globalizzazione va immaginata. E non più subita.
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