Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

L'editoriale/ Quella politica del populismo da evitare nell’emergenza

di Paolo Pombeni
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Sabato 26 Marzo 2022, 00:12

Si pensava che la guerra in Ucraina avrebbe se non seppellito, messo in stand by la tentazione di alcune forze politiche di rimanere nell’ambito della vecchia ideologia del “partito di lotta e di governo”. Giusto per un po’ di storia, l’etichetta fu inventata dal vecchio Pci togliattiano quando stava nei governi di ampia coalizione fra il 1945 e il 1947 e serviva a tenere buoni i militanti che aspettavano una qualche forma di rivoluzione: l’essere sottoposti alle responsabilità di cooperazione a livello di esecutivo con le forze “borghesi” non significava rinunciare a promuovere nel paese le lotte operaie, magari anche Da allora il mondo è cambiato un bel po’, ma fra le forze politiche l’illusione che sia possibile tenere i piedi in due scarpe è dura a morire. Oggi non ci sono più le durezze ideologiche che avevano modellato la “doppiezza” togliattiana, ma c’è prepotente il richiamo del populismo e della demagogia come strumenti facili per raccogliere consenso. In tempi di politica-spettacolo (il termine “show” non è affiancato per caso a “talk” nella comunicazione televisiva) sarebbe quasi strano che non si ricorresse a queste arti di manipolazione che si presume piacciano molto ad un pubblico che ama assistere alle lotte fra gladiatori della parola.


Il problema è che la politica è una cosa seria e la sua dimensione internazionale non si sottrae a questa regola. Spesso si ritiene che la vecchia definizione per cui la politica è l’arte del possibile sia una stupida formula cinica per dire che il bene possibile non esiste e dunque accontentiamoci del male inevitabile. Non è così. Molto di buono è possibile fare, a patto di non cadere nella mitologia che ci prospetta la possibilità di creare alle spicce un mondo perfetto.
Non stiamo facendo un discorso astratto, bensì prendiamo atto di quel che sta accadendo nel nostro paese in questa difficile contingenza. L’invasione russa della Ucraina è un tentativo di rimettere in discussione un sistema di equilibri internazionali e l’Italia, essendo parte di esso, ne è pienamente coinvolta (e sconvolta). Proporre fughe nell’empireo di quelli che si pongono al di sopra della storia, assomiglia tanto al “né aderire, né sabotare” con cui i socialisti italiani si illusero di stare al di sopra di quanto stava accadendo con la Prima Guerra Mondiale, finendo per pagare il prezzo amaro che li avrebbe esclusi dalla possibilità di gestire in maniera diversa prima lo sforzo bellico e poi la pace.


Non si può che assistere con preoccupazione a sortite come quelle del leader pentastellato che suggerisce di pensare prima al peso delle bollette che alla nostra partecipazione alla razionalizzazione della presenza italiana nella difesa occidentale, o come quella del leader leghista che si riscopre devoto del Papa e pacifista dopo anni di esaltazione del legittimo diritto all’uso delle armi. Sono tentativi di accreditarsi presso fasce di opinione che non vorrebbero fare i conti con una emergenza imprevista e nuova e che sono condizionate da decenni di slogan a buon mercato: sulla guerra che non sarebbe più tornata, sulle virtù miracolose del “parlarsi”, sulle semplificazioni del “basta dire di no” (una subcultura ancora attiva, basti vedere qualche slogan urlato ieri dai ragazzi nei cosiddetti “Fridays for Future”, ma anche un certo clima nell’Anpi).
Non dobbiamo stancarci di ricordare che il nostro governo è impegnato in una partita estremamente complicata e che indebolirlo serve solo a preparare un futuro poco roseo per il nostro paese.

La credibilità dell’Italia nel sistema geo-politico di cui fa parte è una componente importante perché possiamo fruire di questo posizionamento come mezzo per affrontare le difficoltà che si profilano all’orizzonte. Chi pensa che questo accadrà comunque, non sa come funziona la storia.


Si sta lavorando a costruire una solidarietà a livello europeo ed atlantico, ma non è un processo né lineare, né a buon mercato. Indubbiamente la Ue si è rinsaldata nella presente contingenza, ma non si creda che le competizioni fra i suoi membri si siano dissolte d’incanto. Ci sono storie di competizione, per non dire di concorrenza fra gli stati nel settore economico, e il nostro paese, con tutte le difficoltà che ha affrontato negli ultimi decenni, è stato e per certi versi è ancora un terreno di caccia e di penetrazione per nostri partner. Abbiamo una dipendenza dai finanziamenti del Recovery europeo che sono uno strumento di notevole aiuto, ma anche di altrettanto notevole controllo verso certe nostre disinvolte libertà di azione.
Soprattutto ci portiamo addosso uno stereotipo di paese poco affidabile, specie nelle relazioni internazionali, e non si vede perché debba essere confermato dai comportamenti di politici che specie nelle relazioni internazionali si comportano come dilettanti allo sbaraglio.


Il contesto delle scelte politiche, interne e internazionali, non è un palcoscenico in cui vince chi strappa il maggior numero di applausi (o, per essere più moderni, di like) disputando su un mondo che si è costruito da solo con le arti della sua retorica (polemica). E’ un duro contesto di situazioni storiche, di rapporti di forza e di condizionamenti di debolezze, di capacità di contribuire all’elaborazione di soluzioni efficaci e possibili per non finire vittime delle contingenze avverse. E’ lì che devono operare un governo e una classe dirigente avendo le capacità di essere all’altezza delle sfide in campo.
I duelli di parole lasciamoli ai gladiatori della nuova specie, che non fanno azione politica, ma spettacolo e intrattenimento.

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