Paolo Pombeni
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Il ruolo dei dem/ Le alleanze obbligate e le riforme a metà

di Paolo Pombeni
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Sabato 8 Ottobre 2022, 00:16

Più che inerpicarsi a scalare la torrenziale seduta di autocoscienza (vera e falsa) della direzione Pd, conviene soffermarsi su due affermazioni fatte dal segretario Letta nella sua relazione, perché dovrebbero porre qualche problema a chi si occupa del funzionamento dei sistemi costituzionali, mentre, se non ci è sfuggito qualcosa, sono state ignorate.

Entrambe rispondono in verità a preconcetti largamente circolanti, ma il segretario di un grande partito politico, per di più con qualche ambizione accademica, dovrebbe essere in grado di stare in guardia da roba del genere.

La prima è l’affermazione che quando cadrà il governo di Giorgia Meloni il Pd non sarà disponibile a soluzioni di unità nazionale, ma chiederà lo scioglimento della legislatura e che si torni al voto. In sé la richiesta è plausibile, non fosse che contiene un errore logico. Le soluzioni parlamentari che optano per larghe coalizioni che superano le normali dialettiche tra la maggioranza e le opposizioni uscite dalle urne non hanno di per sé nulla di demoniaco, se rispondono ad emergenze per cui un paese non può permettersi il lusso di infilarsi in una crisi politica rischiosa con il ricorso ad elezioni anticipate. Escludere a priori che ciò possa accadere non è possibile e non ha senso, se non quello di dire che è preferibile mettere a rischio il futuro del proprio paese pur di superare l’esame di purezza ideologica da parte di non si sa quali censori. 
Aggiungiamoci due altre osservazioni. In primo luogo, con quell’affermazione Letta, certamente senza rendersene conto, delegittima la decisione del presidente Mattarella quando a fronte della crisi del Conte 2 anziché sciogliere le Camere visto che non si riusciva a rimettere in sesto una maggioranza per quel governo si adoperò per costruire una soluzione di larga coesione nazionale sotto la guida di una figura di alto profilo e fuori delle contese di parte. Ci si interroghi se mandando allora i cittadini alle urne avremmo avuto risultati migliori rispetto a quelli che abbiamo ottenuto col governo Draghi.

In secondo luogo, mettere Giorgia Meloni di fronte alla prospettiva di dover tornare davanti agli elettori se il suo governo andasse in crisi, potrebbe significare anche aumentare la forza di negoziazione, se non vogliamo dire di ricatto, dei suoi attuali alleati. La tecnica delle “grandi coalizioni”, più volte sperimentata per esempio in Germania, può anche servire a liberare i partiti maggiori dal condizionamento dei loro alleati minori. Non può certo essere la regola, ma privare per un principio astratto un leader di governo dell’opportunità di ricorrere in certe circostanze all’appello ad un interesse superiore condiviso da forze di opposizione lo spinge a cedere alle pretese dei suoi alleati che possono essere piuttosto sgradevoli.

L’abbiamo visto in passato e non ci vuol molta fantasia per immaginare cosa potrebbe accadere in futuro.

La seconda affermazione di Letta che suscita perplessità è la condanna, per la verità assai generica, delle scelte fatte dal suo partito per stare al governo pur non avendo vinto le elezioni. Questo supporrebbe un quadro di democrazia rigidamente maggioritaria che nel nostro sistema non esiste. Si sta tentando di introdurla surrettiziamente con la attuale legge elettorale che obbliga a coalizioni inventate, ma dovremmo aver già visto quali esiti poco brillanti produca. Il nostro quadro costituzionale è quello di una democrazia dove le coalizioni di governo si costruiscono, e si disfano, in parlamento, dove nessun partito ha una investitura elettorale così larga da essere legittimato a governare da solo.

In queste condizioni che ogni partito provi ad utilizzare la quota di consenso che ha raccolto nelle urne per entrare al governo dovrebbe essere considerato normale. Solo qualche partitello molto piccolo può ricevere dai suoi elettori un mandato a fare una opposizione di testimonianza. Tutti gli altri competono per tradurre il consenso ricevuto in soluzioni di governo. Dunque, il Pd non ha commesso alcun “illecito” ad entrare in varie formule politiche portandovi la quota di rappresentanza ricevuta anche se non era uscito vincitore dalle urne (ma veramente qualcun altro lo era stato in misura assoluta?). Semmai da sottoporre a valutazione sarebbe il risultato che ha conseguito in tutti questi casi, ma su questo ci pare non ci sia stata grande discussione.
Per riprendere la stucchevole immagine del “doppio petto” governativo, ci chiederemmo perché nel Pd non ci si interroghi sul fatto che per indossare quell’abito ci si sia adeguati ad accettare misure poco serie proposte dai diversi compagni di strada e non si sia riusciti a realizzare alcune riforme significative. Per il primo caso basta citare la resa al populismo del taglio senza equilibri del numero dei parlamentari, per la seconda al mantenimento di una legge elettorale che adesso tutti si affrettano a definire pessima (ma a suo tempo la votarono senza problemi). Il nostro sistema costituzionale va rafforzato nei suoi meccanismi di funzionamento, ma proprio chi volesse rendere credibili le riserve verso fantasie su presidenzialismi che mettono tutto nelle mani del vincitore di un rodeo elettorale, dovrebbe riscoprire le potenzialità di una democrazia negoziata. Certo sottraendola ai rischi dei mercanteggiamenti di bassa lega e delle oligarchie immutabili, ma avendo in mente che non è inseguendo i consigli di autoproclamare reincarnazioni di Catone il Censore che si rifonderà un sistema più giusto e più equilibrato.

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