Qui nessuno prega nessuno, come è ovvio in una società laica, e consideriamo la subalternità, anche rispetto a una figura importante come un capo del governo, un atteggiamento riprovevole e figlio di una cultura che non ci appartiene. Ma ci permettiamo di dire che non dovrebbe appartenere neppure a lei. Non vorremmo che le sue mancate risposte sul futuro di Roma, che è adesso, dipendano da qualche veto politico che le è stato imposto e che, appunto per subalternità, lei non osa infrangere. Non le farebbe onore se, a bloccarla nel suo eventuale attivismo, nell’amore per Roma che sicuramente prova perché è qui che lei ha avuto tutto, fosse l’ossequio alla linea dei 5 stelle che temono l’oscuramento della Raggi. Che vedono in ogni iniziativa per Roma - e Beppe Grillo lo ha fatto capire nel blitz dell’altro giorno qui a Roma dove ha incontrato tutti compreso lei - una minaccia allo splendore, inesistente, della sindaca. Che considerano qualsiasi slancio in favore della Capitale e contro il suo declino finora inarrestabile una sorta di peccato di lesa maestà a Virginia. Che non solo non è Maria Antonietta ma non ha neppure le brioches da lanciare al popolo, il quale oltretutto - come si vedrà nel voto comunale del 2021 - non le raccoglierebbe.
Il concetto stesso di subalternità è inascoltabile sempre ed è massimamente inconcepibile quando si parla di Roma. Che non ammette, come la sua storia dimostra dall’antichità in poi, alcun tipo di sudditanza che possa riguardarla. Con Roma ci si approccia da potenza a potenza, non sono accettabili cedimenti a convenienze tattiche, a interessi di carriera o di partito, a logiche di piccolo cabotaggio. Se uno il coraggio non ce l’ha, se lo deve dare. Sennò restiamo - ci passi la franchezza, presidente - l’Italia di don Abbondio. Che comunque, non a caso, non aveva Roma come sua Capitale.
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