Francesco Grillo
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Le incognite aperte/ Abbattere l’ostacolo burocrazia in tre mosse

di Francesco Grillo
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Lunedì 6 Luglio 2020, 00:29
Trastevere è il cuore di una città talmente eterna dall’aver dato il suo nome a ben due imperi che sono sopravvissuti per millequattrocento anni alla fine di quello di cui era stata Capitale. Ed è la grande bellezza del centro di Roma che può aiutare a capire la natura di quella che il presidente del Consiglio chiama la «madre di tutte le riforme».

Cento micro-cantieri incerottano le vie del quartiere. Durante il fine settimana le scalinate che dalla Villa che fu affrescata da Raffaello portano agli argini del fiume sono chiuse per un lavoro in corso. In corso però non c’è proprio nulla. Due piccoli automezzi sono fermi e l’unica segnaletica che si trova sulle transenne che impediscono il passaggio dicono di un appalto che doveva cominciare il 30 ottobre 2019 e finire dopo sessantuno giorni consecutivi. 
Lo scontro sul decreto Semplificazioni riflette la convinzione che questo Paese ripartirà solo se saprà domare la Bestia (la chiamiamo burocrazia anche se Weber le attribuiva una definizione molto diversa) che rallenta risposte, grandi opere e piccole manutenzioni facendoci perdere occasioni e fiducia. Ma è la quotidianità, quella che si vive a mezzo chilometro da Palazzo Chigi, oltre che i confronti internazionali e la consapevolezza vera di come le tecnologie possono cambiare tutto, a dirci che, però, stiamo forse di nuovo sbagliando approccio a quella che è la battaglia decisiva.

È, dunque, possibile semplificare e, contemporaneamente, rendere più forte la legalità. Ma alla “semplificazione” non possono bastare le scorciatoie che, periodicamente, ad ogni emergenza, il legislatore italiano tenta. Ed è, allora, persino naturale che i provvedimenti della bozza di un decreto che sta dividendo una maggioranza fragile e che è esplicitamente concepito per durare fino al “31 luglio del 2021”, non riescano a disegnare una strada di riforma complessiva. 

Giusta l’idea di rendere gli amministratori pubblici responsabili per il “non decidere”, almeno quanto, se non di più che per decisioni errate (anche se lascia perplessi l’ipotesi di arrivare a tale equiparazione non attraverso l’inasprimento delle conseguenze dell’inerzia, ma con un alleggerimento di quelle relative ad azioni non legittime). Va bene pretendere una più stretta applicazione di meccanismi che, più chiaramente, evitino ai cittadini attese illimitate di una decisione (articolo 11). E, tuttavia, la proposta dell’articolo con il quale il decreto apre, di prevedere transitoriamente l’aggiudicazione di contratti pubblici senza bando, assomiglia alla pericolosa decisione di mettere sotto una doccia fredda un organismo che, comunque, da tempo presentava una pericolosa sindrome influenzale.

Secondo la Commissione Europea, la percentuale di gare alle quali si presenta un solo partecipante è in Italia già molto superiore rispetto agli altri Stati dell’Unione, e le conseguenze sarebbero negative non tanto sulla legalità, ma sulla concorrenza, sull’innovazione. Sulla possibilità stessa – come rileva l’Autorità di garanzia dei mercati – che ci siano idee nuove in un’offerta di beni e servizi alla pubblica amministrazione dominata da poche imprese.

La realtà è che per vincere una battaglia che hanno perso quasi tutti negli ultimi vent’anni, è necessaria una strategia che si articoli nel tempo e in tre passaggi essenziali.
Innanzitutto, è necessario abbandonare l’idea (che lo stesso decreto Semplificazioni assume), che siano le sanzioni civili o penali erogate da un tribunale, ad essere l’unica improbabile clava per orientare il comportamento di un dirigente. Occorre – più laicamente e con maggior pragmatismo – far diventare parte integrante dei contratti di lavoro pubblico, un sistema di incentivi legati non più a prestazioni individuali ma di gruppi di lavoro con i quali negoziare – ogni anno – obiettivi misurati da pochi indicatori capaci, sul serio, di differenziare stipendi e prestazioni. Dobbiamo, anzi, rinunciare alla semantica - impropria e controproducente – della “meritocrazia” (e dei concorsi) e più concretamente, legare la carriera di un amministratore alla capacità di creare valore per la comunità che serve.

In secondo luogo, lo stesso principio dovrebbe specularmente valere per l’assegnazione dei contratti pubblici: procedure esclusivamente fondate sul rispetto formale di regole sempre più incomprensibili, vanno progressivamente sostituite da meccanismi che legano il pagamento e la scelta dei fornitori ai risultati ottenuti e ai tempi. 

La terza mossa di una pubblica amministrazione moderna è, infine, quella di utilizzare molto di più le tecnologie per coinvolgere i cittadini nel controllo diffuso di come le risorse dei contribuenti vengono utilizzate (come per la verità intuisce la bozza del decreto Semplificazioni a proposito delle opere di rilevanza nazionale) e, persino, nelle decisioni di investimento. 

In fondo, la chiave per restituire “imprenditorialità” ad uno Stato che deve radicalmente riorganizzarsi, è rendere normale l’eccezione che ci ha consentito a Genova di battere i nostri stessi limiti. Dovremmo riuscire anche a Trastevere, e ovunque, a porre a chi gestisce spazio e denaro pubblico la stessa richiesta di dover far presto e bene perché non abbiamo più tempo. In questo strano tempo mutato dal Covid, l’efficienza dell’amministrazione diventa questione morale e di democrazia.
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