Anna Coliva*

I giovani e il futuro/ La cultura dimenticata nei programmi dei partiti

di Anna Coliva*
5 Minuti di Lettura
Giovedì 8 Settembre 2022, 00:19

E la cultura? Domandava nei giorni scorsi l’accademico Vincenzo Trione dalle colonne di un autorevole quotidiano milanese ai capi dei vari schieramenti, constatando come il tema fosse vistosamente assente da ogni programma elettorale.  Effettivamente è così. Ma questa afasia della politica ha una causa che è bene mettere in chiaro per superarne l’effetto di inerzia. In realtà in Italia una certa politica si è occupata molto di cultura, tanto da occuparla. 


Partendo però da qualche equivoco che ha provocato distorsioni. Dato che indubbiamente la cultura produce benessere psichico come suo esito finale, benessere che qualcuno chiamerebbe spirituale, questa verità è servita per relegarla nel campo dello svago proprio a causa dell’uso disinvolto e superficiale che se ne è fatto. 
Ogni volta che si parla di cultura, anche da parte delle istituzioni addette, in realtà si parla di eventi, di astratta creatività, di turismo: di conseguenza i governi si sono dedicati soprattutto alla redditività dello svago sotto lo slogan “con la cultura si mangia”. Ne consegue che nei momenti di emergenza - e in corso ce ne sono parecchie - la prima cosa cui si rinuncia è lo svago. Ecco perché i partiti oggi non ne parlano, al massimo si rivolgono con meccanico autocompiacimento ai “beni culturali”, a vaghe teorie identitarie riguardo a un passato che costituisce una fuga facilmente giustificabile, inoffensiva, pacificamente condivisibile. I luoghi come luoghi comuni.

La cultura invece è un obiettivo obbligatorio e richiede un ritorno di impegno per la sua massima diffusione di base perché la società sia consapevole di sé. Il problema culturale è una vera emergenza nazionale che incombe qui e ora con la concretezza impietosa dei dati di ogni rilevatore internazionale dei livelli di alfabetizzazione e capacità funzionali che ci inchiodano agli ultimi posti di ogni classifica. Sono certamente onorevoli gli obiettivi della correttezza politica progressista insiti nella «cultura come spazio della condivisione e del dialogo tra mondi lontani», ma questa stessa correttezza rischia di tradursi in nient’altro che in seducenti propositi di creatività generica, di suadente proclama culturale molto professionistico che riduce il problema a pratica virtuosa, a pedagogismo.

Per una seria politica della cultura che voglia affrontare l’emergenza reale dell’istruzione la via è una sola ed è la scuola. Ed è questione da affrontare immediatamente, da ristabilirsi nei suoi scopi originari eliminando la serie infinita di riforme che ne hanno svilito il ruolo assieme all’autorevolezza, hanno ridicolizzato i criteri di selezione sia di allievi che di insegnanti, hanno introdotto stravaganze didattiche e globalismi da neofiti. Sul piano condiviso dell’improvvisazione sono state annullate le divisioni tra destra e sinistra; è stata raggiunta la parità di genere grazie ai disastri di ministri, ministre e ministr*; si sono abolite le disuguaglianze tramite la promozione del 99,9% degli alunni (dati Invalsi) con il picco di risultati positivi proprio nelle aree di massimo disagio.

Della scuola invece va ristabilito il prestigio ed il rispetto, la forza di attrattività e di competenza. Altrimenti accade che mentre si dibattono i Grandi Temi della Cultura come spazio della condivisione e del dialogo, quegli spazi siano fisicamente occupati dalla dialettica molto realistica e anche contundente tra genitori e insegnanti, con gli insegnanti nella parte dei contusi.

Qualora si ricorra a vie più pulite, si strappano le promozioni grazie a sentenze del Tar e nei concorsi universitari si tenta di abbattere il persistente familismo italiano con denunce penali. Ma anche qui emergono acuminate punte di diamante nella lotta alle discriminazioni sessiste che avanzano grazie a spericolati ribaltoni semantici: la rivendicazione del familismo come giusta vittoria della parità di genere qualora della vetusta pratica approfittino figlie, mogli, fidanzate o cognate al posto di figli, mariti, fidanzati e cognati. L’orgogliosa affermazione di parità è sempre unita al più femmineo ma gaudente piagnisteo.

Un’unica eccezione al tombale silenzio sulla cultura c’è stata, quella del programma dalle caratteristiche più liberali e meritocratiche avanzato dal Terzo polo che ha proposto l’estensione dell’obbligo scolastico anche alle classi superiori, ponendo come emergenziale la lotta all’abbandono scolastico nelle zone e nelle classi sociali particolarmente disagiate e in vaste aree del Paese, dove il concetto di scuola dell’obbligo è uno sbiadito codicillo. 

Porre fine alla destrutturazione della scuola dovrebbe essere il fronte comune per forze politiche che vogliano affermare la serietà del pragmatismo al posto dell’irrealismo delle promesse e sottrarsi alla strumentalizzazione. Invece si è registrato da un lato l’assoluto ma coerente silenzio della destra, frutto di afasia di lungo corso sull’argomento. Dall’altro il tentativo affannoso di rilancio, con l’improbabile proposta dell’obbligatorietà dell’asilo a tre anni che rivela, oltre alla vocazione dirigista e statalista della costrizione, la ben più grave concezione della scuola come parcheggio, welfare per le famiglie, sempre al servizio di qualcos’altro rispetto all’interesse per l’innalzamento del livello culturale, ovviamente irrilevante a quell’età. Assistenzialismo e solo assistenzialismo. 

La promessa poi di aumento degli stipendi agli insegnanti, senza alcuna selezione meritocratica, completa il pacco-dono elettorale per garantire sempre più la dipendenza della scuola dagli interessi delle rappresentanze sindacali, che sono tra le cause della sua distruzione. La mendicità elettoralistica fa ignorare termini quali compatibilità, coperture, debito pubblico e cerca di far credere che i costi di questo aumento contrattuale possano finanziarsi con i soldi dell’Europa. O forse sì, si può fare: basta far pagare questo debito alle nuove generazioni tramite la dote per i diciottenni. In un gioco delle tre carte per il quale è fondamentale tenere basso il livello scolastico e quello delle competenze.

O al contrario: salvare i giovani da questa ipoteca imposta loro contando sull’impunità nell’immediato e incuranti della colpa a lungo termine, adeguare la scuola alle necessità del momento e delle nuove generazioni, restituendo all’istruzione l’autorevolezza e la funzione di elevatore sociale in cui tutti dovrebbero riconoscersi.


*Direttore Emerito Galleria Borghese
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA