Romano Prodi
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Potenze contro/ Il rispetto tra Stati che tutela la pace

di Romano Prodi
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Domenica 25 Settembre 2022, 00:07

Il tragico attacco russo all’Ucraina ci obbliga non solo a riflettere sulle conseguenze dirette di questa guerra, ma ad allargare il nostro sguardo verso i nuovi orientamenti della politica internazionale e le sue possibili evoluzioni future. Come più volte abbiamo messo in rilievo, questa sciagurata guerra ha accresciuto il ruolo di assoluta primazia della Cina nell’ambito dei Paesi autoritari mentre, nel campo democratico, l’unità di azione è stata resa possibile solo dal peso dominante degli Stati Uniti.


Questa evoluzione verso un mondo bipolare è in corso da tempo. Tuttavia gli avvenimenti recenti la rendono più evidente, soprattutto dopo il voto dell’assemblea delle Nazioni Unite, dove la maggioranza dei Paesi si è schierata con le democrazie occidentali, ma le nazioni che rappresentano la maggioranza dei popoli hanno preferito appoggiare lo schieramento degli autocrati. Non solo il mondo si sta sempre più dividendo fra i due schieramenti ma, dopo un periodo nel quale le nostre democrazie sembravano prevalere in tutto il pianeta, negli ultimi decenni la Cina è stata in grado di coagulare attorno a sé un numero crescente di adesioni.


Le ragioni sono tante e tutte ci dovrebbero spingere a rinnovare il funzionamento delle nostre democrazie. 
Lasciando tutto questo ad ulteriori riflessioni,  mi limito a mettere in rilievo una differenza strutturale fra la politica estera di Cina e Stati Uniti, oggi indiscussi leader dei due schieramenti.


Partiamo da una semplice constatazione. La Cina ha oggi una popolazione pari a un quinto dell’umanità ma solo il 7% delle terre coltivabili, una quantità non sufficiente per nutrire la sua popolazione. La Cina è inoltre il primo Paese nella produzione industriale mondiale ma, eccetto nel caso delle terre rare, non dispone né delle materie prime, né delle risorse energetiche necessarie per fare funzionare le sue imprese. Cibo, materie prime e energia, debbono essere quindi reperite all’estero. Di qui i continuativi e crescenti rapporti con gli altri Paesi asiatici, con la Russia, con l’America Latina e, soprattutto, con l’Africa, colpevolmente abbandonata dalla frammentata politica europea. 


Di fronte alla Cina abbiamo gli Stati Uniti che, sostanzialmente, sono benedetti da Dio e autosufficienti in tutto: non solo possono fare fronte ai fondamentali consumi interni ma sono in grado di esportare, oltre ai frutti della loro tecnologia, beni alimentari, petrolio e gas. L’impressionante aumento della presenza cinese oltre i suoi confini non deriva quindi solo da una straordinaria crescita dell’economia ma dal fatto che questa politica estera così pervasiva è dedicata a garantire la sopravvivenza stessa dei cinesi ed è quindi obbligata a una necessaria continuità nel tempo.


Di fronte a questa continuità gli Stati Uniti hanno dovuto praticare una politica estera molto più discontinua, perché dedicata non a garantire la sopravvivenza quotidiana dei cittadini americani, ma a decidere il ruolo che gli Stati Uniti scelgono di ricoprire nello specifico periodo di tempo.

Un processo guidato non dalla necessità, ma dagli orientamenti della pubblica opinione che, come avviene in ogni Paese democratico, sono mutevoli nel tempo.


Tutto questo ha prodotto frequenti cambiamenti di alleanze e di orientamenti nella politica estera americana. Abbiamo infatti assistito ad una partecipazione diretta in conflitti anche in Paesi molto lontani (a partire dal Vietnam e dall’Iraq) seguiti da scelte di segno opposto, nelle quali sono prevalse le spinte verso un esclusivo primato della politica interna. Queste discontinuità hanno spinto molti Paesi in via di sviluppo ad allontanarsi dal fronte democratico e ad avvicinarsi alla Cina che, proprio per la sua presenza continuativa nel tempo, era nel frattempo divenuta il loro partner più importante in termini di commercio e di investimenti. La tensione fra Cina e Stati Uniti si è quindi allargata in uno scontro che coinvolge tutti i Paesi del mondo. Uno scontro che rende impossibile affrontare i grandi e indifferibili problemi del pianeta, problemi che possono essere risolti unicamente con una collaborazione a livello planetario. Non solo il cambiamento climatico e la transizione energetica, ma anche il crescente protezionismo, l’emarginazione dei Paesi più poveri, il controllo del folle aumento degli armamenti e una maggiore collaborazione nella lotta contro le pandemie.

Tutti problemi che non possono essere affrontati se si parte dall’ipotesi, ogni giorno purtroppo avvalorata, che il conflitto fra autocrazie e democrazie sia inevitabile. Onestamente non credo in una possibile conversione della Cina verso la democrazia, non credo in un suo crollo come è capitato nell’Unione Sovietica, ma non credo nemmeno in un definitivo indebolimento delle democrazie che, nei casi estremi come la guerra di Ucraina, dimostrano di sapere ritrovare la propria unità. Credo invece che sia urgente mettere in pratica il messaggio che ci ha lasciato il presidente Kennedy molti anni fa, quando ci ha detto che, se non siamo capaci di porre fine alle nostre differenze, dobbiamo almeno darci da fare per vivere in sicurezza rispettando queste nostre differenze. Questo messaggio è oggi ancora più attuale di allora.
 

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