Francesco Grillo
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Lezioni all'estero/ Il gravoso investimento che rende forte un Paese

di Francesco Grillo
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Giovedì 15 Settembre 2022, 00:08

La guerra in Ucraina sembra metterci con le spalle al muro. Sembra costringerci ad una scelta impossibile tra tre obiettivi vitali: evitare – già subito dopo le elezioni – una recessione che può portare alla chiusura di migliaia di imprese strangolate dalle bollette; liberarsi – in un tempo medio – dalla minaccia dei tiranni che abbiamo finanziato per anni comprando carburante; raggiungere gli obiettivi che l’Europa si è posta per il 2030 di ridurre del 55% le emissioni di anidride carbonica rispetto al 1990. La domanda alla quale stanno cercando una risposta – tra poche idee e molta confusione – i partiti che si candidano a governare una situazione difficile è dunque questa: c’è un’idea, almeno una, per poter salvare tutte e tre le necessità contemporaneamente? Senza essere costretti a fare una scelta che ci porterebbe inesorabilmente a franare anche sugli altri due fronti? 
In realtà, non occorre andare lontano dall’Italia per trovare una risposta. Ci sono società che si sono per tempo preparate alla tempesta perfetta facendo una scelta alla quale dovremmo dedicare tutte le nostre risorse politiche, tecnologiche e finanziarie. Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria, lo stesso Portogallo, la Svizzera fuori dall’Unione Europea, indicano una strada che non ha alternative. 
Le ultime previsioni economiche dell’Oecd di Parigi sono state pubblicate a luglio in un documento che si chiama “il prezzo della guerra”. 

L’Europa nel complesso paga al conflitto un rallentamento di quasi due punti e mezzo. Il fantasma si chiama stagflazione (inflazione più recessione) che abbiamo conosciuto nel 1973 quando i Paesi arabi tagliarono i rifornimenti di petrolio a quelli che avevano appoggiato Israele nella guerra consumata tra Sinai e Golan. In un quadro così fosco, si intravedono però piccole isole felici: il Portogallo, l’Austria, la Svizzera pagano alla crisi energetica solo mezzo punto; a Lisbona la crescita del Pil continua a essere del 5,3% e a Zurigo l’inflazione è poco superiore al 2%. Va un po’ peggio alla Finlandia e alla Svezia, ma solo perché più abituati ad esportare in Russia. La capacità di resistere alle crisi si traduce, peraltro, in maggiore indipendenza politica. La Svezia e la Finlandia chiedono l’ingresso nella Nato proprio mentre la Russia cerca di schiacciare l’Ucraina e di ricattare la Germania. L’Austria e la Svizzera difendono una neutralità sancita da Costituzioni e Trattati che le consente di essere sede di alcune delle più importanti organizzazioni internazionali. 

Ma c’è un elemento in più che questi Paesi europei condividono e che in parte spiega il miracolo della resilienza. La leadership nello sviluppo di energie rinnovabili. I sei Paesi che consideriamo sono tutti – nei numeri dell’Università di Oxford - tra i dieci Paesi del mondo con la più alta quota di energia che viene da fonti non soggette ad esaurimento: si va dalla Svezia che è al 51% fino al Portogallo che vi copre un terzo del fabbisogno.

Germania, Francia e Italia sono sotto il 20%, come evidenzia il grafico che accompagna l’articolo. Non meno interessante, infine, è il dato sulla composizione di energie rinnovabili: in Portogallo, in Danimarca – ma, per la verità, anche in Germania e Spagna – l’eolico e il fotovoltaico valgono già più dell’idroelettrico. È evidente, infine, che i Paesi che si sono già convertiti alle rinnovabili, beneficiano già dei vantaggi di un ambiente pulito: non è solo grazie ai benefici fiscali che il Portogallo ospita molti pensionati; mentre è l’intera pianura padana a colorarsi di rosso nei monitoraggi della qualità dell’aria.

La guerra ne aumenta fortemente l’urgenza di una trasformazione dell’intero processo di produzione, distribuzione e consumo di energia. Ma quanto realmente costa completarla in un Paese come l’Italia? La Fondazione Enel ha recentemente calcolato il valore di un piano articolato in tre componenti: riduzione della quantità dell’energia che consumiamo per ogni euro di Pil prodotto; aumento della quota di energia che viene erogata attraverso tecnologie elettriche; incremento del peso delle rinnovabili (e, in particolar modo, di fotovoltaico e eolico) sul mix che serve per produrre elettricità. Ad ogni passaggio corrispondono, peraltro, imponenti trend di innovazione.

È un piano che può portarci nel 2030 a raggiungere Portogallo e Svizzera. E che, però, ha il difetto apparente di costare quanto cinque Pnrr (1.056 miliardi di euro) solo nei prossimi otto anni. E, tuttavia, la vera notizia è che i benefici di una trasformazione così ambiziosa sarebbero decisamente maggiori dei costi: ogni euro speso produrrebbe un ritorno (di 1,64 euro) superiore a quello previsto dal Pnrr nel suo complesso (1,2 nell’ipotesi migliore), creando 2,6 milioni di posti lavoro. Sarà, peraltro, proprio come per il Pnrr, altrettanto necessario rimuovere i vincoli regolamentari che fanno da collo di bottiglia di investimenti ben meno impegnativi. E che ci allontano da Paesi avvantaggiati da una dimensione e complessità minore.

Le tre crisi che possono scatenare la tempesta perfetta – guerra, inflazione e siccità – pongono l’Europa di fronte ad un bivio più definitivo di quello al quale abbiamo risposto con Next Generation Eu. C’è da sostituire blande transizioni in coraggiose trasformazioni; investendo di più ma con investimenti più focalizzati e un ritorno assai più chiaro. Su queste basi si può costruire una strategia che nello stesso patto di stabilità sia governata con criteri che siano distinti da quelli che continueremo a usare per gestire debiti antichi e meno “buoni”. Una logica simile può essere applicata anche per disegnare una risposta emergenziale alla quale è utile però dedicare una separata riflessione. Dobbiamo utilizzare l’energia della crisi per entrare con decisione in un mondo radicalmente nuovo. 


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