Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Campagna d'agosto/ La logica populista al posto dei programmi

di Paolo Pombeni
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Martedì 9 Agosto 2022, 00:05

E se invece di agitare bandierine i partiti in competizione parlassero di progetti, ovvero di programmi? Naturalmente roba seria, non cataloghi di slogan, che lasciano il tempo che trovano. L’obiezione è che non c’è tempo, è estate e la gente non ha voglia di impegnarsi su temi complicati, e poi, diciamoci la verità, più o meno tutti i partiti sono convinti che alle urne ci andrà il 50% di popolazione più o meno già “schierata” e dunque a quelli si deve parlare, il resto in gran parte si asterrà e quella parte che vota si disperderà in rivoli e non farà la differenza.
Se abbiamo presente questo quadro si capisce non solo la strategia di Letta, che non ha il coraggio di affrontare il problema dell’ampia quota di massimalismo presente nel suo partito, ma anche quella dei leader della destra-centro che a loro volta fingono di non vedere le fratture che i loro massimalismi continuano ad alimentare sotto traccia.
Eppure a nostro modestissimo giudizio è questa fuga dalla responsabilità di farsi carico di una complicata età di transizione come quella che stiamo vivendo ciò che caratterizza questo passaggio politico che si vorrebbe invece giocato nel classico vecchio schema della destra che finalmente reclama il suo posto a capotavola e della sinistra che deve fermare i barbari che non sanno mangiare con la forchetta.

La mettiamo così giusto per non cadere nella banalità eterna dello scontro fascismo vs comunismo, troppo fuori tempo per misurarsi con un mondo attanagliato dal problema di gestire i cambiamenti futuri. In realtà sono questi ultimi ciò che preoccupa, talora angoscia, la gente. 
A parole tutti i partiti giurano che lo sanno benissimo e che vogliono dare risposte, ma non lo si può fare inseguendo le varie utopie, quelle che predicano il ritorno a tempi meravigliosi o l’ingresso in nuovi paradisi terrestri, entrambi caratterizzati dal vedere sparire i tormenti di questa fase storica.
Un serio discorso sui programmi dovrebbe consentire l’abbandono di questi terreni pericolosi. In primo luogo perché è così che si attiva la dialettica democratica. Chi mette in campo buone proposte, anche nel caso perdesse la conquista della maggioranza condizionerebbe comunque le decisioni dell’avversario che ha vinto. La storia è testimone di questa dinamica. La barbarica idea che il vincitore fa quel che vuole va espunta per quanto possibile dalla nostra cultura, sebbene abbia una lunga tradizione di applicazioni da parte di tutte le forze politiche.
Sarebbe auspicabile dunque che destra, sinistra e anche i cosiddetti terzi poli, si impegnassero ad accreditarsi come portatori del riformismo necessario per superare i molti problemi di funzionamento e anche di giustizia che affliggono il nostro sistema. A cominciare dalle riforme che ci ha chiesto l’Europa per finanziare la nostra uscita dall’impasse post-pandemico, riforme che avremmo dovuto avere il coraggio di fare anche senza il vincolo dei finanziamenti del Next Generation UE. 
Va detto però che le riforme pongono due problemi che i partiti devono affrontare a viso aperto. Il primo è che si tratta di percorsi che richiedono gradualità, passaggi successivi, per cui da un lato bisogna lasciar perdere le utopie del tutto e subito, dall’altro è necessario vigilare attivamente perché tutto non si esaurisca nel primo step lasciando poi le cose più o meno nelle vecchie condizioni.
Il secondo problema riguarda il fatto che non esistono riforme che non abbiano costi, che possono essere di varia natura: economici (il che vuol dire che sottraggono disponibilità per impieghi più voluttuari ma a cui si è abituati), sociali (perché mutandosi certe condizioni alcuni perderanno posizioni), culturali (in quanto cambiare mentalità non è mai cosa semplice).

Sono fattori con cui le forze politiche devono fare conti preventivi in modo che il progresso, se ancora possiamo usare questo termine, sia gestito con l’obiettivo di promuovere uno sviluppo collettivo equilibrato riducendo al massimo e magari azzerando il rischio di danni collaterali.

Si può chiedere questo a partiti che sembrano dominati solo dagli appetiti di vittoria finale o dalle tentazioni di buttarla sullo scontro apocalittico fra bene e male? La domanda non sembri ingenua. Vediamo bene che il contesto è favorevole allo scatenarsi dei massimalismi, alle lotte di fazione per spartirsi un numero di seggi drasticamente ridotto e da giocarsi in collegi più che problematici, al cedere alla tentazione di rifugiarsi nella ripetizione di vecchi mantra pseudo-ideologici che sono scambiati per formule magiche. Eppure le elezioni non sono, per usare una frase fatta, un concorso di bellezza: stabilite che è il più bello del reame e poi tutto finisce lì, al massimo si rinvia alla prossima edizione.
Le elezioni devono produrre il governo del Paese, il che non significa stabilire semplicemente chi sarà il premier e chi i ministri, ma attivare un sistema complesso, proprio perché siamo una democrazia costituzionale, in cui devono funzionare gli organi di decisione e gli organi di controllo, ma soprattutto deve affermarsi una volta di più il principio del governare attraverso il confronto, per cui la dialettica fra le componenti dentro e intorno al parlamento è fondamentale e nessuno è legittimato a decidere da solo per tutti (questa è, vogliamo ricordarlo, la teoria alla base del totalitarismo, quale che ne sia il colore).
Questo è il contesto che va preparato già nella fase di inizio della campagna elettorale, senza demonizzazioni che servono solo alle fortune personali dei capetti delle frange massimaliste e che alla fine delegittimano tutti coloro che hanno a cuore lo sviluppo del Paese (ma che devono trovare il coraggio per mettere al margine quelle frange).

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