Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi

Covid, il senso civico per evitare una disfatta

di Vittorio Emanuele Parsi
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Giovedì 5 Novembre 2020, 00:36

Secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han, una delle ragioni del successo asiatico nella lotta alla pandemia è da rintracciarsi nel diverso bilanciamento che quelle società realizzano tra diritti individuali e responsabilità nei confronti del gruppo. Byung si riferisce ai Paesi dell’Estremo Oriente (Giappone, Cina, Sud Corea, Singapore, Taiwan… ma potremmo includere anche il Vietnam), e argomenta che mentre lì la gerarchia tra spettanze individuali e bene pubblico è chiara, in Occidente il sistema liberale offre troppe scappatoie all’egoismo travestito da libertà e rende più individualmente costoso e meno immediatamente remunerativo l’altruismo sociale. La cosa interessante è che Byung non imputa questo al liberalismo in sé, ma mette in evidenza che quando il senso di appartenenza a una comunità si appanna o è fragile, quando il “noi” si indebolisce, il liberalismo facilita l’emergere di un “io” ipertrofico che tende a trasformare il diritto in privilegio.


L’argomentazione di Byung credo valga la pena di essere approfondita e ulteriormente indagata, proprio perché è trasversale rispetto ad altre rappresentazioni spesso evocate nel confronto tra Oriente e Occidente: per esempio relative al peso del confucianesimo nelle sue tante ibridazioni e influenze o sul ruolo del consumismo o della religiosità (difficile trovare società più consumiste e strutturalmente agnostiche di quelle del Far East), e relativizza persino il tema del regime politico.


A noi italiani, tanto più in questa fase di totale manifestazione di assenza e inadeguatezza di leadership, di crescenti esplosioni di malcontento e di sensazione di “resa” di fronte al monitoraggio della diffusione del contagio, offre poi la chance di ragionare a prescindere da stilemi e luoghi comuni, provando a costruire una trilogia dell’arrancante inefficacia della nostra reazione al virus. Una trilogia della nostra peculiare vulnerabilità, definita da debolezze di leadership, burocrazia e senso civico.


Se infatti proviamo ad allargare il ragionamento di Byung sui punti di contatto tra i sistemi politico-sociali che stanno avendo successo nella lotta alla pandemia, riscontriamo in tutti questi: 1) leadership politiche ed economiche capaci di assumersi tempestivamente le proprie responsabilità; 2) burocrazie pubbliche e private efficaci, in grado di trasformare tempestivamente le decisioni in azioni; 3) un senso del dovere diffuso nei confronti dei “fellow citizens”, che ha contribuito a rafforzare la comunità e a poter chiedere a ognuno uno sforzo individuale come condizione necessaria per consentire un’azione collettiva che non risultasse vana.


Prodezze solo asiatiche? No, come Byung sottolinea riconoscendo lo straordinario esito della Nuova Zelanda, guidata dalla premier laburista Jacinda Arden (quella stessa che seppe tenere unito il Paese dopo la strage islamofoba di Christchurch, che è stata appena trionfalmente rieletta e che proprio l’altro ieri ha nominato la prima ministra degli Esteri di etnia Maori), la quale si è sempre rivolta ai suoi cinque milioni di connazionali evocando lo “spirito di squadra”.

La Nuova Zelanda è il Paese degli All Blacks.

Sarebbe facile e bello, per chi scrive, magnificare le virtù intrinseche del rugby (di cui il 1° novembre ricorreva il 197° anniversario della fondazione) come base del successo neozelandese. Ma si direbbe piuttosto il contrario: che laddove certe virtù esistono, il rugby le esalta e se ne nutre. Basti pensare che oggi il Giappone è una delle emergenti grandi potenze di “ovalia”.


Tornando quindi all’Italia, possiamo constatare come la leadership politica (a tutti i livelli e su qualunque fronte) abbia latitato, ancora oggi impegnata nell’eterno gioco del cerino. Né quella economica si è distinta per molto altro oltre il cercare di approfittare della crisi pandemica per procrastinare il rinnovo di contratti di lavoro scaduti da anni o rendere sempre più strutturale il precariato. In tutto ciò non sono state offerte prospettive credibili che qualcuno avesse idea di come affrontare l’asimmetrica ricaduta delle conseguenze della pandemia. La macchina burocratica italiana, già notoriamente poco efficace e resa ancora più fragile dalla retorica dell’efficienza che per decenni ha significato semplicemente il tentativo di ridurne il costo senza preoccuparsi dell’efficacia della sua azione, è diventata per leadership inette e negligenti prima il miraggio e poi l’alibi dietro cui provare a fare scomparire le proprie responsabilità. L’affanno con cui il sistema sanitario nazionale arranca è misurato dalla consunzione fisica dei suoi operatori (medici, personale sanitario e inservienti di ogni mansione e qualifica). Come la storia patria dovrebbe ricordarci, l’eroismo è spesso ciò che è chiamato a mascherare malamente la sconfitta e la responsabilità di chi comanda: da Giarabub a El Alamein, al Don…


Resta il nostro senso civico cui appellarsi, in un Paese che non ne ha mai mostrato troppo – dall’evasione fiscale alle spintarelle al familismo, all’individualismo arraffone – e che potrebbe trasformare o non trasformare questi mesi da una ennesima Caporetto a una linea del Piave. Se Byang ha ragione, non stiamo messi bene. Ma il senso civile è tutto quello cui noi possiamo fare ricorso: che dipende solo ed esclusivamente da noi, e che prescinde dalla cialtronaggine di chi ha sempre confuso il potere con l’autorità, l’immunità con la responsabilità, i diritti con i privilegi. Non basterà da solo a portarci fuori, ma potrebbe consentirci di “tenere”: concorrendo a trasformare innumerevoli azioni individuali altruistiche in un’azione collettiva efficace. I conti li faremo dopo. E chi si illude che questo possa risolversi in una mera tornata elettorale non ha capito proprio nulla della gravità della fase e quanto questa stia cambiando in profondità la società italiana

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