Mario Ajello
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Ma l’alibi del virus non può limitare il diritto di voto

Ma l’alibi del virus non può limitare il diritto di voto
di Mario Ajello
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Giovedì 29 Ottobre 2020, 01:20 - Ultimo aggiornamento: 08:11

Negli Stati Uniti tra 5 giorni si vota. In Italia, in primavera, forse no. Si elegge dunque il 3 novembre una delle cariche più importanti nel mondo, il presidente del gigante americano, nel pieno di una pandemia che in quel Paese sta infuriando con quasi nove milioni di contagiati, 555 mila solo nell’ultima settimana, e oltre 226 mila morti. Serpeggiano invece qui da noi voci e speranze, nei partiti, nei Palazzi, in ambienti della maggioranza di governo così come all’interno dell’opposizione e in alcune città importanti che tra 7 mesi dovrebbero andare al voto - e Roma tra queste è naturalmente la principale - secondo cui le elezioni comunali a causa del Covid potrebbero non tenersi. Perché troppo grande sarebbe il rischio di farle. 


Viene da chiedersi allora: una super-elezione che coinvolge 330 milioni di cittadini negli Stati Uniti, e nel pieno di un’emergenza spaventosa, viene comunque celebrata alla scadenza naturale con tutti gli enormi rischi che comporta organizzarla, mentre si fa saltare un appuntamento politico come quello delle nostre comunali che comunque, per il numero di votanti e per le maggiori possibilità di controllo sanitario dell’evento, dovrebbero risultare più gestibili? 


L’ipotesi del non voto italiano a primavera è stata esplicitata dal sindaco di Milano, e Giuseppe Sala lo ha fatto così: «Far slittare le elezioni milanesi di maggio per colpa del Covid? Non lo dico per me, ma ricordo che le elezioni regionali sono state rinviate di sei mesi. Noi fino alla primavera saremo in questa situazione. Siamo allora sicuri che si voterà alla scadenza prefissata?». E guarda caso, a insinuare il dubbio è proprio un sindaco alle prese col nodo da sciogliere della sua ricandidatura. E che ha tutto l’interesse a prendere altro tempo. Così come lo avrebbero - «A pensar male si fa peccato ma spesso si azzecca», diceva giustamente Giulio Andreotti - gran parte dei protagonisti politici italiani. I quali, si veda il macroscopico e sconcertante caso di Roma, per ora sono incartati sia a sinistra sia a destra, perché incapaci di trovare candidati all’altezza della sfida Capitale e di elaborare una visione degna di questa metropoli, da cui far discendere proposte pratiche e strategie d’intervento operative e il più possibile condivise dalle forze produttive e dai cittadini per fermare il declino e dare sviluppo. 


Per dirla con secchezza: guai a usare il Covid come alibi per rinviare l’urgenza di dare una svolta amministrativa alle città che ne hanno bisogno e Roma tra queste e più di queste ha dei problemi di gestione e una necessità di rinascita che - fatti salvi tutti ma proprio tutti i criteri di assoluta sicurezza nello svolgimento della consultazione - non possono essere procrastinati. 


Il caso americano dimostra che con tutte le opportune cautele si può svolgere una campagna elettorale condotta a distanza, con la regola fatta rispettare del divieto di assembramenti, con i dibattiti televisivi, con il web e l’informazione che sono nel vivo dello scontro ma da remoto, con un corpo a corpo delle persone e delle ricette che è continuo ma non fisicamente diretto. 


Lo stesso, più in piccolo ma con identico o anche superiore senso del rigore e ossequio alle norme di sicurezza, può avvenire qui in Italia.

Non si può transigere minimamente sul dovere dello Stato e delle autorità pubbliche di ogni ordine e grado che devono garantire la più completa tutela dei cittadini in ognuna delle loro attività e allo stesso tempo si deve esigere che il diritto di voto, ossia una delle funzioni della vita associata, venga assicurato nei tempi e nei modi più corretti. Tenendo ben presente l’eccezionalità del momento e affrontandola con tutto il rigore necessario - controlli più auto-responsabilizzazione, legge e ordine e attivazione di ogni procedura di protezione - anche in sede di campagna elettorale e poi di svolgimento del voto. 


Chi ha detto che per forza la caccia ai consensi nelle nostre città debba svolgersi per esempio nelle cene elettorali, dove il contatto è strettissimo e i bacilli possono volare perfino di più delle promesse elettorali ma meno a vanvera di queste? E quanti modi diversi dal comizio classico ormai esistono - dice qualcosa la parola Zoom?- nella neo-politica costretta a rinnovarsi al tempo del contagio? Va subito sgombrato il campo insomma, come insegna appunto il caso americano, dai discorsi del tipo: a Roma, a Milano, a Napoli le elezioni vanno rinviate perché non siamo capaci di farle svolgere come si dovrebbe in questa fase. Sul rispetto della sicurezza si deve essere inflessibili, e se ognuno onora il compito che gli è assegnato - lo Stato fa lo Stato e il cittadino fa il cittadino in senso pieno, ossia rigoroso e responsabile - un esercizio democratico come è quello del voto resta un’opportunità e non diventa un pericolo. Basta però stare ai patti di cui sopra. 


Ciò che veramente sarebbe inammissibile è usare la pandemia, che è una cosa terribilmente seria, come mezzo di piccolo cabotaggio per allontanare le urne. Come un pretesto per nascondere i ritardi dei leader nel mettere la propria faccia e nel trovare i volti giusti per la competizione elettorale, che avrà a Roma la sua scena massima e su cui l’intera Europa metterà gli occhi. Già non mancano in continuazione, purtroppo, le prove di irresponsabilità da parte delle nostre classi dirigenti. Questa sarebbe l’ennesima. Ed è bene attivarsi subito perché non si verifichi.
 

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