Mario Ajello
Mario Ajello

Non cadiamo nella trappola di chi recrimina

Non cadiamo nella trappola di chi recrimina
di Mario Ajello
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Mercoledì 20 Maggio 2020, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 02:29
C’è ripartenza e ripartenza. Ma alla base di ogni ripartenza non può che esserci la fiducia in se stessi. E non la lagna e il vittimismo: lo Stato non mi aiuta, l’Europa fa solo i fatti propri, il Mes è un complotto per affamarci e chissà che cosa ci sarà mai dietro i recovery fund.

Si chiamava European Recovery Plan (Erp) il cosiddetto Piano Marshall del giugno 1947 e dietro quegli aiuti finanziari da 14 miliardi di dollari, spesso paragonato a torto o a ragione a quanto si sta cercando di fare adesso, c’erano oltre agli interessi di politica internazionale e di nascente Guerra Fredda l’estrema credibilità e la dimostrazione d’impegno e di laboriosità che il popolo italiano e le sue classi dirigenti avevano mostrato nell’immediata fase post-bellica.

Il presidente del consiglio, De Gasperi, andò Oltreoceano a dire nel famoso discorso di Cleveland agli americani: «Avete visto in questi primi anni della nostra restaurata democrazia gli italiani al lavoro, e avete potuto constatare che siamo poveri mezzi ma molto ricchi di fermi propositi». Di tenacia, e di voglia di fare. Anche così ci conquistammo il sostegno, gli aiuti e la collaborazione, non le mance, di quel grande Paese. E il resto fu il decollo di una nazione che seppe risollevarsi dalle macerie economiche e sociali senza piangersi addosso. 

Ora il rischio che s’affaccia nella fase 2 è quello di non dare fondo in pieno alla nostra capacità di fare, di credere e di creare, rimboccandoci le maniche per rialzarci in tutti i modi. E di rifugiarsi invece nell’altra parte del carattere nazionale, che purtroppo esiste anche se si spera sia sempre più residuale perché i tempi non la permettono. Due Italie si stanno profilando insomma: quella che ci crede e quella che recrimina, quella del diamoci da fare e quella dei lamentosi.

Questa dicotomia rischia di vanificare o di ridurre l’ottima prova che gli italiani hanno dato durante il momento più acuto dell’emergenza, quando - smentendo anche grandi geni come Montanelli o Longanesi o Flaiano che hanno stigmatizzato o finto di irridere le nostre debolezze - ci siamo dimostrati un popolo serio, disciplinato e consapevole più di altri della portata della battaglia in corso. 

Adesso bisognerebbe terminare l’opera virtuosa intrapresa mesi fa. E non rispolverare, come pezzi d’Italia stanno facendo e anche istituzioni importanti quali i sindacati, la concezione dello Stato baby sitter o dello Stato mamma che tutto ci deve e che si pretende ci accompagni dalla culla alla bara (possibilmente il più tardi possibile). Lo Stato deve fare lo Stato e non diventare agli occhi del popolo e di alcune categorie l’unico santo a cui votarsi per la ripresa. Sennò, si finisce per deresponsabilizzarsi, e per precipitare nel cliché si spera immeritato dei soliti “mammiferi” italiani, che dipendono dalla genitrice e non da se stessi.

Il rimbocchiamoci le maniche non può che essere la premessa e il succo dell’andrà tutto bene. Viceversa, girando per le città, il mugugno sembra l’atteggiamento prevalente. Anche se in fondo non lo è. E sia pure meno visibile si scorge infatti l’altra Italia, quella adulta degli ottimisti che altro non sono che pessimisti bene informati: cioè quelli che sanno che meno ti lagni e più vieni rispettato e sostenuto nei tuoi sforzi o, per dirla alla De Gasperi, nei tuoi «fermi propositi». 

Se prevale l’atteggiamento dignitoso e fattivo su quello recriminatorio e assistenzialistico - che pure ha in una parte del governo i suoi addentellati politico-culturali, si pensi al reddito di cittadinanza grillino che ora addirittura si vorrebbe universale - si acquisisce più autorevolezza. E si è più forti sullo scacchiere continentale delle politiche per la ricostruzione, si diventa più attrezzati nel contrastare i risorgenti - anzi, mai sopiti - pregiudizi da parte dei falchi del Nord Europa. 

Serve carattere, ecco. Occorre cibarsi di bistecche di tigre. Giusto meritarsi gli aiuti. Ma non da questuanti, non nella logica interna (se non mi aiuta lo Stato mi rivolgo ai piccoli Stati, cioè alle Regioni e ai governatori smaniosi di protagonismo) e internazionale del sussidio dovuto. Anzi, sarebbe questa la volta buona, visto che nella storia le uscite dall’epidemia hanno spesso creato modernizzazione, per liberarsi da antichi retaggi della mentalità italiana, che non sono i migliori. 
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