Carlo Nordio
Carlo Nordio

Esecutivo a rischio/ Il pasticcio referendum senza vinti né vincitori

Esecutivo a rischio/Il pasticcio referendum senza vinti né vincitori
di Carlo Nordio
4 Minuti di Lettura
Lunedì 7 Settembre 2020, 00:38 - Ultimo aggiornamento: 13:41
Leggendo le motivazioni del “Sì” e del “No” nell’imminente referendum sulla riduzione dei parlamentari, un intelletto critico e speculativo potrebbe ricordarsi dell’ammonimento di Hegel, secondo il quale i problemi non nascono quando una parte ha ragione e l’altra torto, ma quando hanno ragione tutte e due. Perché gli argomenti convincenti sono equamente distribuiti, tanto da dividere, al loro stesso interno, quasi tutti i partiti. In realtà questa matassa è ancora più ingarbugliata di quanto sembri, ed almeno per tre aspetti. 

Il primo è quello che definirei il paradosso del mentitore. Si tratta della famosa antinomìa attribuita a Epimenide, che sosteneva che i cretesi sono sempre bugiardi. E poiché anche lui era cretese, o diceva la verità, e allora smentiva sé stesso, oppure mentiva, e quindi talvolta era sincero. Nel caso attuale il paradosso consiste in ciò: l’iniziativa di ridurre il numero di deputati e senatori nasce dall’antiparlamentarismo grillino che, almeno alle origini, vedeva in costoro una banda di filibustieri. 

Tutti ricordiamo la valanga di vituperi riversata sui rappresentanti del popolo, qualificati ora come zombi vaganti ora come marciume destinato a una ignominiosa estinzione. 

In effetti, nella visionaria palingenesi dei pentastellati, la funzione legislativa sarebbe stata assorbita da quella generica “volontà generale” il cui teorico, che i francesi chiamano con affettuosa ironia semplicemente Jean-Jacques, aveva ispirato il nome della piattaforma grillina.

Orbene, adesso la situazione si è capovolta. Nell’entusiasmo masochistico di aderire a questa indignazione epuratrice, tutti i partiti - con qualche rara eccezione - si sono adeguati all’iniziativa pentastellata. Il caso più clamoroso è quello del Pd che, dopo aver votato ripetutamente contro la riforma, ha cambiato idea calcolando che il prossimo Quirinale valga bene una messa. Ma in questo modo la matrice ideologica della stessa riforma si converte nel suo contrario, perché l’ostilità antiparlamentare, giusta o sbagliata che fosse, è diventata unanimità parlamentare. Cosicché, amalgamandosi a quel Parlamento che avevano inteso demolire, oggi i grillini, proprio come Epimenide il cretese, smentiscono loro stessi.
Il secondo aspetto, connesso al primo, risiede nella caratteristica che quasi ogni referendum ha assunto sin da quando è stato introdotto: quella di anteporre al giudizio sul merito del provvedimento da approvare ( o da abrogare) quello sulle immediate conseguenze politiche del suo esito. Nel 1974, in tema di divorzio, la politicizzazione estrema che ne fece l’onorevole Fanfani trasformò un dibattito giuridico-sociale in crociata pro o contro la Democrazia Cristiana. Molti liberali votarono per l’abrogazione del divorzio per non far vincere i comunisti, e altrettanti comunisti, pur convinti dell’indissolubilità del matrimonio, votarono in modo opposto per dispetto allo storico avversario. 

E in effetti la vittoria dei divorzisti produsse, come conseguenza politica, una serie di vittorie della sinistra culminate con la conquista del Comune di Roma. Lo stesso accadde quattro anni fa con il referendum voluto da Renzi, dove molti elettori, pur convinti della bontà della riforma, votarono contro per sbarazzarsi del dinamico primo ministro, che infatti perdette il posto. 

Ora è possibile che, in questi venti giorni che rimangono, si ripresenti la medesima tentazione. Perché se vincesse il “No” lo schiaffo maggiore lo subirebbero i pentastellati, con grave rischio per la sopravvivenza loro, e soprattutto per quella del governo e forse della legislatura. 
E infine la legittimità di quest’ultima. Se vincesse il “Sì” avremmo - in parte qua - una nuova Costituzione, che prevederebbe una composizione parlamentare completamente diversa da quella attuale. Ora, benché sia comprensibile una vacatio legis tra l’approvazione della riforma e la sua pratica applicazione, è ben difficile sostenere che un Parlamento possa durare due anni e oltre con novecento componenti quando la nuova Carta – e non un’ordinaria legge elettorale - ne impone una riduzione sostanziosa. Anche se giuridicamente si può ammettere il contrario, dal punto di vista politico la situazione si presenterebbe in tutta la sua gravità. 
Concludo. Tutto questo non sarebbe avvenuto se questa riforma fosse stata progettata, studiata e attuata con la serietà e la competenza imposte dalla materia trattata. Invece l’inavveduto precipitarsi nella corsa a un presunto consenso emotivo ha combinato un pasticcio insolubile, dove, comunque vada a finire, lo stesso Parlamento subirà conseguenze impreviste, e forse il suo stesso scioglimento.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA