Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Economia di guerra/ Quanto conta il consenso del mondo del lavoro

di Paolo Pombeni
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Martedì 12 Aprile 2022, 00:11

La situazione per il governo è più che seria. Sai che scoperta, verrà da dire. Eppure non si tratta solo del contesto noto a tutti, la guerra in Ucraina, la ricadute della lunga stagione epidemica: il fatto è che per farvi fronte sarebbe necessaria una forte coesione nazionale che non si riesce a costruire per le fibrillazioni di un quadro politico dove hanno un peso determinante partiti alle prese con il consolidamento delle loro fortune elettorali. Una circostanza di questo tipo richiederebbe una tregua generalizzata che è un obiettivo quasi irrealizzabile. In questi casi ognuno pensa che se accetta di smetterla di sventolare le sue bandierine scompare e lascia il campo agli avversari. 


Così ciascuno reclama da Draghi il cosiddetto “riconoscimento”, altrimenti gli elettori penseranno che lui non conta. Però non si è in condizioni di dare riconoscimenti a pioggia, soprattutto su questioni più di retorica (a volte di demagogia) che di sostanza: si aumenterebbe il caos nel sistema economico e sociale e non è proprio il caso. Ecco allora che il premier sta tentando un’altra strada, che potrebbe essere molto interessante: costruire il largo consenso necessario per una politica di emergenza con il coinvolgimento di quelle che una volta si chiamavano le parti sociali, i sindacati, gli imprenditori e magari qualche altra componente sociale organizzata. L’impresa non è semplice, ma meno complicata dell’intesa coi partiti, perché le parti sociali rappresentano o almeno dovrebbero rappresentare interessi più solidi di quelli della raccolta del consenso elettorale. Detto in termini essenziali, c’è sul tavolo il problema di come garantire una ripresa economica che è l’elemento chiave per garantire l’uscita dell’Italia da una fase difficile. Con una battuta: hai voglia di proclamare che non alzerai le tasse, ma se poi l’economia non marcia, peggio se quote rilevanti finiscono nel gorgo della disoccupazione o qualcosa di simile, di tasse non se ne pagheranno perché non si guadagnerà più abbastanza. Con le conseguenze che non occorre un master in economia per immaginarle.


Ora la leva chiave per la ripresa economica è poter godere appieno dei fondi del Recovery europeo, anzi magari di vederli anche rimodulati in positivo con altri sostegni per far fronte alle nuove difficoltà portate dalla crisi internazionale. Difficile poter contare su queste risorse se il nostro Paese trasmetterà l’immagine di un sistema politico in eterna tensione (per non dire di peggio), incapace di determinare linee di intervento credibili e una governance all’altezza dei tempi che stiamo vivendo. Per dirla di nuovo banalmente: bloccare o anche solo cincischiare qualche riforma (fiscale, del catasto, della concorrenza, del sistema giudiziario) può anche portare ai partiti qualche piccolo vantaggio nelle urne, ma poi fa venire meno il rispetto di condizioni che sono vincolanti per ottenere la corresponsione delle varie tranche di finanziamenti europei a sostegno del Pnrr.
Questo quadro è ben chiaro tanto ai sindacati quanto alle rappresentanze del sistema delle imprese.

Si sa che c’è un problema di riaggiustamento degli interventi previsti dal Pnrr per il mutamento dei costi e dei prezzi, che ci sono affanni nelle sedi che devono “mettere a terra” i progetti (in molti casi amministrazioni comunali non all’altezza), che già si denunciano gare di appalto che vanno deserte perché le imprese non se la sentono di imbarcarsi in opere che non si prospettano più remunerative.


Dunque è alle parti sociali che si può chiedere l’impegno di fondare il consenso pubblico necessario per stabilizzare e rendere efficiente il nostro sistema di governo della sfera economico-sociale ed è quanto ci sembra Draghi si stia avviando a fare. Si parla di ricostruire il famoso patto sociale che viene ricordato a merito di Ciampi, ma forse questa volta si tratterà di andare anche più a fondo per le asperità di questa fase storica. Chi guarda alle componenti di questo ideale tavolo non può nascondersi l’esistenza di non poche incognite: tanto sul fronte delle organizzazioni dei lavoratori quanto su quelle dei datori di lavoro le divergenze non sono poche, non mancano le difficoltà nel far emergere leadership in grado di coagulare i consensi (e sono componenti indispensabili), così come è presente qualche riflesso condizionato (chi non può fare a meno di chiedere una patrimoniale straordinaria giusto per fare un po’ di scena).


Eppure tutti quelli che rappresentano gli interessi del mondo del lavoro, quale che sia il lato della barricata su cui si collocano (se vogliamo usare ancora questo datato modo di vedere le cose), si rendono conto che non è tempo di dedicarsi allo sport di piantare bandierine: la vecchia immagine del “siamo tutti sulla stessa barca” non è mai così convincente come quando si affrontano emergenze, per di più impreviste come è nel caso attuale. Sarebbe augurabile che il tentativo di ricostruire un grande patto sociale, una vera solidarietà nazionale, fosse sostenuto da un profondo moto della pubblica opinione, che può davvero dare quel “viatico” che è necessario per comporre interessi e anche culture che devono fare uno sforzo per trovare una sintesi. Dovrebbero concorrervi i partiti, memori dei tempi in cui seppero farlo, i media rinunciando al ruolo di palcoscenico per opinioni che fanno spettacolo e anche le agenzie sociali che sono ancora attive in questo paese.

Certo bisogna lasciarsi definitivamente alle spalle la stagione delle utopie a buon mercato, ma dovrebbe essere una avventura che affascina chi ama il suo paese e la sua gente e crede che piuttosto che pontificare per promettere un mondo ideale sia meglio lavorare per evitare che quello che abbiamo finisca travolto da contingenze poco felici.

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