Francesco Grillo
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Il debito alle stelle/ L’ipotesi (ignorata) di ridurre le spese inutili

di Francesco Grillo
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Lunedì 23 Novembre 2020, 00:05

«La pratica di finanziare le guerre indebitandosi, ha gradualmente portato alla rovina gli Stati che l’hanno adottata. Un debito pubblico elevato non è, inoltre, meno pernicioso quando è posseduto da residenti, perché porta ad una percezione sbagliata del costo del conflitto e ad un trasferimento duraturo di risorse dalle classi produttive a quelle che vivono di rendita». Il trattato sulla “Ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith è all’inizio della storia dell’economia e il suo ultimo capitolo ci regala la ragione più profonda per la quale liberare lo Stato dalle spese cattive, sia - anche ai tempi della strana guerra nella quale siamo intrappolati - un imperativo morale. Morale prima che tecnico. 
È un’illusione pericolosa quella di proporre che i debiti si possano cancellare senza condizioni. E, anzi, la stessa Finanziaria, lo stesso “Piano di Resilienza e Rilancio” rischiano di fare l’errore fatale di non porsi il problema di usare fino all’ultimo euro per aumentare l’efficienza del sistema e ottenere la massima crescita possibile. Usando ovunque quell’innovazione che è figlia diretta della necessità.

Era un’ipotesi di lavoro quella avanzata dal presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, di considerare - all’interno di una riforma complessiva dei meccanismi di stabilità - la cancellazione dei debiti detenuti dalla Banca Centrale Europea e contratti dagli Stati europei per rispondere all’emergenza. 

La proposta ha ovviamente spaccato il dibattito sulla riforma dell’Unione in due campi ideologici nettamente contrapposti. Tuttavia, quasi tutti si sono limitati a considerarne la fattibilità tecnica. 
C’è chi ha ricordato - come Christine Lagarde, ma anche, in Italia, Lorenzo Bini Smaghi - che è fuori dalla missione della Banca Centrale Europea preoccuparsi della solvibilità degli Stati dell’Unione, laddove essa ha come unico compito di mantenere l’inflazione ad un livello (due per cento) che vent’anni fa fu ritenuto ottimale (essendo, quindi, esclusa anche la crescita dai propri obiettivi istituzionali). 

Altri, come Carlo Cottarelli, si sono – più pragmaticamente – posti il problema di come una Banca Centrale che cancellasse grandi volumi di attività (titoli pubblici) possa continuare a fare il proprio mestiere che è quello di modificare la liquidità presente nel sistema. C’è, infine, chi, al contrario, ha provato a rassicurare tutti dicendo che il debito con la Banca Centrale Europea è congelato, in quanto da Francoforte non chiederanno mai di ripagarlo (e tale affermazione deve essere sembrata surreale a chi si è mai trovato a gestire il debito pubblico da una Direzione del Tesoro); laddove c’è chi si è spinto a immaginare che, comunque, in caso di perdite su debito condonato ad una Banca Centrale basta cancellare la moneta emessa dalle proprie passività (assumendo, in fondo, che essa sia simile ad un bottone premendo il quale otteniamo moneta e soluzioni in grado di risolvere qualsiasi problema).
La sensazione è che, in definitiva, molti colleghi stanno perdendo l’occasione (ennesima) di cogliere il senso strategico di una questione che – mentre viviamo una violenta accelerazione della storia – mette in discussione non solo i modelli di sviluppo, di democrazia, ma anche le categorie analitiche, intellettuali che usiamo per comprendere una realtà divenuta più complessa.

Cancellare debiti che potrebbero pesare per decenni sulle nuove generazioni che sono già quelle che hanno pagato – per intero – il costo di ben tre enormi crisi negli ultimi vent’anni, è possibile. Così com’è possibile cambiare gli statuti delle Banche Centrali tenendo presente che l’innovazione tecnologica delle monete virtuali e l’emergere di nuove potenze finanziarie (innanzitutto la Cina) stanno erodendo il monopolio delle istituzioni che dal 1694 (la prima fu la Bank of England) hanno avuto il potere – quasi magico - di battere moneta. 
E, tuttavia, qualsiasi ristrutturazione di equilibri finanziari non più sostenibili deve partire da un principio assoluto: quello della responsabilità.

Sarebbe devastante una cancellazione dei debiti se essa significasse insabbiamento del fallimento di intere generazioni di classi dirigenti.

Sarebbe immorale se essa diventasse una specie di rottamazione di errori seriali e di colpe, in quanto i condoni senza condizioni (proprio come succede come quelli tributari) hanno la tendenza a ridurre la volontà di individui e gruppi sociali a modificare i propri comportamenti. Se tale cancellazione – come ammoniva Smith - facesse diminuire il costo percepito dell’inefficienza.

Cancellare i debiti senza contropartite morali (quelle che prevede anche la più importante delle preghiere del cristianesimo cattolico), ma anche solo ridurne il costo equivale ad un difficile azzardo morale, come tante volte ha ammonito quel Mario Draghi che decise – ad un certo punto – di salvare l’euro a qualsiasi costo.

E allora il punto di preoccupazione vera non è tanto la proposta del presidente del Parlamento Europeo. Ma l’assenza, nei 228 articoli su 128 pagine del disegno di legge di bilancio per il 2021 approvato dal Consiglio dei Ministri la settimana scorsa, di una qualsiasi sezione dedicata ad una revisione che sia, finalmente, seria, anche se progressiva ed intelligente della spesa pubblica. Molte sono le disposizioni che implicano un’ulteriore espansione – non sempre temporanea, perché a volte attraverso contratti a tempo indeterminato – della dimensione dello Stato. E molti sono i richiami retorici alla digitalizzazione che fa il “Piano di Rilancio e Resilienza” che la Commissione Europea aspetta dall’Italia tra qualche mese. 

Ma non si capisce allora perché non abbiamo cominciato a studiare come l’assunzione di nuovo personale in settori critici (la sanità, la scuola ...), possa essere compensata dall’utilizzazione di tecnologie che possono liberare molti dipendenti pubblici da attività che sono rese obsolete dai robot (dalla sicurezza delle strade, all’assistenza dei pazienti a casa), dalle intelligenze artificiali (nella gestione di parte dei processi civili) o che, più semplicemente, sono inutili (ed il lavoro a distanza fornisce un’occasione colossale per misurare ciò).

Forse, però, alla base di tutto c’è l’errore concettuale di affidarsi ad un’ipotesi non provata, sulla quale costruiamo leggi finanziarie e dibattiti surreali: l’idea che per crescere bisogna indebitarsi (ed invece, le evidenze statistiche dicono che si può crescere più degli altri, razionalizzando maggiormente le proprie spese).

Ad avere ragione, sono, in fondo, ancora quei filosofi morali che attribuivano alla teoria economica un ruolo semplice e preciso: è un linguaggio per comprendere meglio una realtà complessa e non un modello astratto nel quale perdere il senso dei fenomeni che osserviamo. Ridurre il debito pubblico non è operazione neutra e neppure contabile. Significa scegliere una società che per sopravvivere deve riportare le proprie priorità sul lavoro, sul talento, sulla conoscenza, sui valori che – in un altro tempo – ne produssero quel progresso sul quale noi siamo scomodamente seduti.
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