Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Rapporti di forza/ Il ruolo dell’Europa nella crisi dell’energia

di Paolo Balduzzi
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Venerdì 28 Gennaio 2022, 00:10

Ai confini dell’Europa, tra Russia e Ucraina, si sta consumando l’ennesima crisi politica internazionale che vede l’Europa alla finestra. Spesso si celebra proprio l’Unione europea perché avrebbe garantito la pace nel continente per oltre 75 anni. Ma questa è solo una mezza verità, e quindi una bugia. E quello dell’Ucraina non è nemmeno il caso più eclatante. Negli anni ’90 del secolo scorso, per esempio, molti dei paesi dell’est europeo si sono dissolti. Ai confini orientali del nostro paese, questo processo fu tutt’altro che indolore e pacifico e portò morte e distruzione a pochi metri dalle nostre coste e dalle nostre montagne. Peraltro, le tensioni di queste settimane derivano a loro volta proprio da quella stagione che, oltre al crollo di paesi e sistemi economici, ha visto concludersi anche l’esperienza del Patto di Varsavia, solo però parzialmente sostituito dall’allargamento della Nato. Al momento, è vero, in Ucraina gli aerei non volano e le bombe non cadono. Ma le flotte navali si posizionano, i mezzi di terra si avvicinano ai confini e gli eserciti si muovono. Nonostante l’escalation, un conflitto armato sembra ancora fortunatamente lontano e, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, nemmeno desiderato. Tuttavia, appare evidente che quella degli eserciti sia solo una guerra, per così dire, di copertura.

E che il posizionamento dei mezzi, sia da parte russa sia da parte atlantica, risponda più a una sorta di burocrazia bellica che a reali intenzioni offensive e difensive. La guerra in Ucraina sembra distante, nel tempo e nello spazio. Ma le sue conseguenze sono molto vicine; anzi, le sue conseguenze si sentono già. La minaccia di una guerra tradizionale nasconde una nuova guerra che già è scoppiata, che non si combatte con le munizioni ma che si consuma con le minacce economiche. Del resto, se è vero che “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, secondo la celebre definizione del generale prussiano Von Clausewitz, è vero a maggior ragione anche il contrario. La politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi; in questo caso, quelli del ricatto energetico o dei dazi sulle esportazioni. Conseguenze che per gli europei del sud, come gli italiani, corrispondono a bollette più care, parzialmente sterilizzate dai governi e addolcite da climi più miti e inverni meno lunghi, ma che altrove richiedono invece un prezzo ben più salato da pagare. Non dovrebbe essere difficile da capirlo, anche per noi italiani che abbiamo il problema opposto. Quando ci sono ondate anomale di calore, gli anziani soffrono e spesso muoiono. Il contrario accade più a nord durante l’inverno. L’aggravante in questo caso è che non ce la si può prendere con un clima impazzito bensì con la pazzia degli stessi uomini, che per la ragion di stato chiudono gasdotti e pozzi petroliferi.

Se non avesse un impatto così drammatico sulla vita delle persone, sarebbe davvero azzeccato parlare di “guerra fredda”, un gioco di parole che va ben oltre il suo significato originario.

Facile prendersela con Putin. E, a ben vedere, nemmeno troppo sbagliato. Ma ci sono tanti modi per essere corresponsabili di una guerra: e uno di questi è rinunciare a combatterla, tergiversando sulle sanzioni o rinunciando a prendere posizione. È quello che sembra stia accadendo in Europa. Perfino gli Stati Uniti, seppur goffamente e in maniera controproducente, hanno provato a intervenire nel conflitto tra Russi e Ucraina. E di certo solo nel loro interesse. Ma l’Europa? Mentre in Ucraina e in Polonia si muore letteralmente di freddo, e mentre negli altri paesi le imprese rischiano di chiudere, aleggia un’ormai tradizionale mancanza di iniziativa comune. Ad ogni conflitto, Jugoslavia prima, Iraq e Afganistan poi, emerge l’esigenza di una forza di difesa europea che non dipenda dalla Nato e dagli Stati Uniti. Ma, nonostante tutto, non sembra esserci reale convinzione di procedere in questa direzione. La realtà è che in questi casi le grandi nazioni europee si muovono da sole e cercano di garantirsi gli accordi migliori. Lo fanno Francia e Germania, perlomeno. E l’Italia? La politica osserva, nicchia, prende (e perde) tempo. Il governo è forse troppo distratto dalla realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza; in parlamento, non serve nemmeno ricordarlo, da settimane si parla solo del nuovo Presidente della Repubblica. E così, dove la politica non arriva o non vuole arrivare, ci pensano le imprese a muoversi.

L’incontro tra i rappresentanti di sedici grandi gruppi aziendali (anche a partecipazione pubblica) con Putin, peraltro programmato da mesi, ha rotto gli indugi. E forse anche qualche equilibrio. Una mossa che è stata criticata dall’Unione europea, che è stata probabilmente solo sopportata - ma ufficialmente non supportata - da Palazzo Chigi e che però, a pensarci bene, non può essere considerata stupefacente. Al contrario, appare strategica e perfino saggia, in un contesto di sopravvivenza economica in cui altri imprenditori europei fanno regolarmene lo stesso. Ma se un paese da solo conta poco, cosa possono contare le imprese? Se anche le armi di questa nuova guerra non sono dunque quelle tradizionali, il principio che le minacce siano più credibili quando le dimensioni dell’interlocutore sono maggiori non cambia. O l’Europa sarà in grado di parlare con una voce comune, anche in politica estera, o non avrà mai l’autorità per garantire davvero benessere, e pace, ai suoi cittadini.

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